L’edizione del Festival di Cannes 2013, che si è aperta mercoledì, porta per noi un importante anniversario: cinquant’anni fa Il Gattopardo di Luchino Visconti vinceva la Palma d’Oro del miglior film in concorso. Tratto dall’omonimo e unico romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, edito postumo nel 1958, il film ne è la trasposizione pressoché fedele; melodramma sfarzoso, visivamente straordinario e filologicamente curato del passaggio della Sicilia dal regno dei Borboni a quello sabaudo dell’Italia unita. L’azione inizia nel maggio del 1860, appena dopo lo sbarco dei mille di Garibaldi a Marsala. Don Fabrizio Principe di Salina (Burt Lancaster), esponente di una famiglia di antica nobiltà, teme ripercussioni negative dagli eventi ultimi. Approva l’opportunismo del nipote Tancredi (Alain Delon), che si arruola tra i volontari garibaldini per cavalcare il nuovo. Nonostante i disordini rivoluzionari, i Salina come ogni anno soggiornano in villeggiatura a Donnafugata, dove il Principe don Fabrizio, nel plebiscito in atto, vota pubblicamente a favore dell’annessione della Sicilia al nascente Stato sabaudo. Simbolo della borghesia che guida il nuovo corso è il sindaco di Donnafugata, il rozzo, arricchito intrallazzatore don Calogero Sedàra (Paolo Stoppa).
La bella figlia di quest’ultimo, Angelica (Claudia Cardinale), con il benestare del Principe si fidanza con Tancredi, che tramite le ricchezze dell’ereditiera progetta di sostanziare la propria scalata sociale nel novello Regno d’Italia. Don Fabrizio, invece, rifiuta il seggio di senatore offertogli da un funzionario piemontese, credendo ormai trascorso il suo tempo, e con esso quello della sua classe sociale. Durante la lunga scena finale del ballo, don Fabrizio presagisce infatti la fine del proprio mondo e la propria stessa morte, mentre Tancredi e don Calogero ostentano fiducia nel nuovo ordine politico e sociale.
Alla lettura del romanzo, Visconti subito decide di trarne un film, attratto da diversi elementi, tra cui l’ambientazione aristocratica siciliana, il principale dei quali si deve però riconoscere nel fatto di poter descrivere il Risorgimento dal punto di vista del tradimento degli ideali da cui esso era partito. Il Visconti militante comunista fa quindi sua – volentieri – la tesi della storiografia democratica (Salvemini e Gramsci soprattutto), avallata dal romanzo, secondo cui il Risorgimento debba considerarsi una “rivoluzione incompiuta”. Il fulcro tematico del film riprende, in questo passaggio, pienamente quello del romanzo.
Lo stesso regista evidenziava, in un’intervista dell’epoca, come i suoi personaggi incarnassero punti di vista reazionari, mostrando così in quale modo falsato la classe dirigente piemontese e i suoi alleati siciliani «portassero avanti il “nuovo” servendosi unicamente degli strumenti più menzogneri e deprimenti del “vecchio”: la malafede, la sopraffazione, l’inganno».
Il perfetto uso degli spazi scenici, le curate sequenze di massa e la splendida fotografia fanno del film di Luchino Visconti un’opera visivamente perfetta, affascinante. La messa in scena è fastosa, fatta di eleganti lunghe carrellate e insistiti “quadri”, fissi sui quotidiani riti aristocratici, emblemi di un mondo che vuole pervicacemente resistere alla propria imminente morte. Significativa la scena finale del ballo, per la quale Nino Rota ha arrangiato un valzer inedito di Giuseppe Verdi. In essa, nello spazio-tempo sospeso dell’azione reiterata della danza, il riassunto di tutte le interrelazioni tra i personaggi attanti della storia (del film) assurgere quasi a simbolo della circolarità della Storia.
In tempi amorfi come i nostri, si rimpiangono quelli in cui un autore di primordine come Luchino Visconti poteva metter in scena un film del genere, vasto per impegno produttivo, costoso e ambizioso nei suoi risvolti critici, al solo fine di dire qualcosa sull’immobilismo politico e sociale dei suoi tempi, cogliendo così anche il senso più profondo dell’opera di Tomasi di Lampedusa. Utilizzando ad arte una vicenda sullo sfondo del Risorgimento, Visconti mette in campo un’operazione simile a quella che già fece nove anni prima con Senso. Anche qui la lettura era quella del Risorgimento come rivoluzione incompiuta, e la metafora, essendo il film del 1954, arrivava fino a trasporre il senso di tale lettura sul tradimento di un’altra rivoluzione: la resistenza e la vittoria sul nazifascismo.
«Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi». Così don Fabrizio, rispondendo al Cavaliere di Monterzuolo che gli offre un posto di senatore nel nascente Regno d’Italia, esprime – rifiutando – il suo sdegno nei riguardi dell’immobilismo e del trasformismo politico. La celebre frase, simbolo del senso del romanzo e del film traslato sul contemporaneo, risulta ancora oggi di sconvolgente attualità.
Forse che l’Italia sia sempre stata uguale a se stessa, terra di saccheggio sin dai lunghi decenni precedenti la propria unità politica e amministrativa: i potenti vecchi e nuovi ad accordarsi per spartirsi tutto e il popolo, impotente o indifferente, a votare – in senso lato – il meno peggio padrone al grido di “Franza o Spagna basta che se magna”. Visto anche l’andamento del ventennio ultimo scorso, abbiamo mai avuto qualche dubbio in proposito?