Domenica scorsa si è celebrata la notte hollywoodiana degli Oscar, rassegna che è nata ai tempi del cinema classico delle major produttive dell’industria cinematografica americana per glorificare prodotti ed eroi autoctoni, anche se a volte – incidentalmente – ha premiato effettivi capolavori come tale riconosciuti anche fuori da quel contesto. Per evidenziarne il valore relativo, basti ricordare che un autentico fuoriclasse come Stanley Kubrick mai vinse un Oscar per la regia, pur avendo ricevuto quattro nomination, tra le quali quella per 2001 Odissea nello Spazio e per Arancia Meccanica; mi pare non serva aggiungere altro.
Il contentino alle cinematografie altre è quest’anno toccato alla nostra, probabilmente perché il film di Sorrentino è piaciuto ai giurati in quanto portatore di italici luoghi comuni assai cari agli americani, poiché mostra (tra l’altro) quello che loro preferiscono vedere negli italiani, come già accadde per Mediterraneo di Salvatores.
In tema di codesti premi autoreferenziali ricordiamo oggi il ventennale del trionfo del film di Steven Spielberg Schindler’s List, che nel 1994 si aggiudicò l’Oscar principale (miglior produzione) condito da altre sei statuette. Cioè, in totale, sette Oscar per un melodramma su un’immane tragedia. Chiunque l’abbia vissuta sempre ha dichiarato che è stata cosa tanto bestiale nella sua autenticità da non essere narrabile con le modalità della finzione cinematografica; per quanto tutti quelli che ci si son provati (da Roman Polanski a Louis Malle, per arrivare ai nostri Faenza e Benigni) l’hanno senz’altro fatto con le migliori intenzioni, e hanno a volte prodotto film stilisticamente molto validi (dei citati, Polanski soprattutto). Si tratta comunque di un difetto del mezzo in sé, del quale non tutti gli autori son pienamente coscienti, ma come tale innato in ogni opera di questo tipo alla stregua di un peccato originale.
Così Schindler’s List rappresenta la shoah con un lungo bianco e nero visivamente affascinante, narrativamente coinvolgente, che ricostruisce meticolosamente la vicenda vera dell’imprenditore boemo, cittadino del Terzo Reich dopo l’annessione dei Sudeti, Oskar Schindler (Liam Neeson). Questi, dopo l’occupazione nazista della Polonia, impianta a Cracovia una fabbrica di stoviglie impiagando la manodopera ebrea a basso costo, attratto dai facili guadagni delle forniture belliche. Uomo affabile, piacente e di gusti raffinati, Oskar Schindler non immagina cosa la follia nazista stia preparando, tanto che da principio non disdegna amicizie nel partito e nelle SS che possano propiziare i suoi affari. Man mano poi che la guerra avanza e viene a galla la vera natura del nazismo, egli prende gradualmente coscienza della barbara situazione fino a riuscire, tramite gli stessi intrighi di cui si era servito per fare soldi, a salvare – usando gli stessi soldi – oltre mille ebrei dai campi di sterminio, compreso il fido contabile Itzhak Stern (Ben Kingsley, magnifico come al solito).
L’argomento del film impone riflessioni che vanno oltre la bellezza e la precisione storica del racconto. Quando alla fine del 1945 fu chiesto a diversi registi di Hollywood di montare in un documentario il materiale girato mesi prima in Germania durante la liberazione dei campi di sterminio, la risposta fu unanime: non si può fare. Gli stessi registi, coordinati da Frank Capra, avevano già realizzato una serie di documentari dal titolo Why We Fight, dove le battaglie e i morti veri erano in tutto uguali alla guerra finta del corrispondente genere cinematografico. Ma quello che di inspiegabile, assurdo, inguardabile la macchina da presa aveva registrato nei campi nazisti non poteva proprio diventare nulla di fittizio, manipolato o ricostruito: restava per sua natura un documento puro.
Materiale filmato con cui non era possibile effettuare un montaggio, contrapporre punti di vista diversi, operare dei tagli, scegliere cosa mostrare e cosa no. Esso poteva solo rimanere intatto, come grezzo documento a futura memoria. La verginità dell’immagine classica veniva così compromessa per sempre. Essa ha conosciuto in quel frangente una sorta di forte shock, poi diventato un punto di non ritorno nella storia dell’audiovisivo in genere, e del cinema in particolare.
Ora, che in un autore come Spielberg, il più importante esponente – con George Lucas – del filone della contemporaneità più spettacolistico e attrattivo, questo shock, anziché attivare il modo relativo di guardare tipico del cinema moderno, abbia ispirato una mega produzione coi caratteri del melodramma hollywoodiano, non stupisce affatto. In questo senso, quel “rosso del cappottino della bambina che sfuggire al rastrellamento” non ci pare proprio poterlo definire una “piccola invenzione poetica”, come un diffuso dizionario dei film riporta, ma piuttosto un bieco colpo basso; una captatio benevolentiae dello spettatore assai poco gradevole. Ma la scena finale dell’omaggio dei sopravvissuti veri e dei loro familiari alla tomba di Oskar Schindler, posta vicino al sito della Dormizione di Maria sul monte Sinai a Gerusalemme, invero rimette il tutto sotto una luce migliore: il personale ricordo è quello di uno spontaneo applauso della sala gremita alla fine di questa scena (e del film), cosa che non rammento per nessun’altra simile occasione (ma è possibile che ci sia stata).
Restano quindi valide le perplessità circa i limiti del media, e del genere melodramma, rispetto alla delicatezza della materia trattata; tuttavia il cinema è anche un mezzo per raggiungere testa e cuore dell’audience tramite il pathos che si disegna sullo schermo. Se l’obiettivo è nobile come tramandare il ricordo dell’evento più tragico del Novecento, allora anche il cinema narrativo, nelle sue mille incarnazioni, può a ben diritto diventare un formidabile archivio memoriale.