LAVORO E POLITICA/ Il modello olandese per aiutare i disoccupati italiani

- Giancamillo Palmerini

In Italia si auspica un cambiamento delle politiche attive del lavoro. In questo senso si può guardare e prendere esempio dall'esperienza olandese

Centri per l'impiego (LaPresse)

Ieri il vicepresidente di Confindustria con la delega al lavoro, in una bella intervista con il giornale “di famiglia”, ha sostenuto che nel nuovo mercato del lavoro non bisognerà più mettere al centro il posto di lavoro, bensì prendersi cura dei lavoratori, delle imprese e delle persone nelle loro transizioni, sempre più frequenti, da una posizione all’altra. Se quindi è certamente necessario, sostiene il dirigente di via dell’Astronomia, assicurare un sostegno al reddito a chi perde il lavoro, contemporaneamente si deve attivare un sistema, possibilmente efficace, di formazione finalizzato al ricollocamento.

Questo dovrebbe garantire, sempre secondo Maurizio Stirpe, una maggiore equità al sistema, sia per i lavoratori che per le imprese. La spesa per le politiche del lavoro deve essere poi riequilibrata. Sono oggi circa 30 i miliardi all’anno spesi, anche se quasi interamente dedicati alle politiche passive.

Vi è poi un problema, banale ma essenziale, legato al numero di operatori presenti sul territorio. In Germania, ad esempio, si occupano del collocamento circa 90 mila persone, da noi, compresi i 3 mila navigator, ci fermiamo a circa 10 mila, pur non essendo, proporzionalmente, un Paese così più piccolo. Questi uffici non sempre sono, secondo Confindustria, in contatto strutturato con le imprese in modo da poterne capire i bisogni e incrociare domanda e offerta di lavoro o, perlomeno, lo sono in maniera molto differenziata tra i diversi territori. Si auspica, in questo quadro, di aprire maggiormente alla collaborazione con le Agenzie private per il lavoro, tramite accordi sul territorio.

Un buon modello a cui guardare, ma ricalibrandolo sul Bel Paese, potrebbe essere quello di un “nemico” europeo come l’Olanda, che rappresenta certamente una pratica innovativa. L’obiettivo principale delle riforme realizzatesi nei Paesi bassi negli ultimi decenni consiste, infatti, nel creare un sistema di reinserimento al lavoro che appunto mira a supportare il ricollocamento dei disoccupati, favorendo quindi la loro indipendenza economica e la loro uscita dal generoso sistema di protezione sociale olandese.

Anche per contenere e ridurre il peso della spesa sociale sono divenute fondamentali, nel modello nord-europeo, queste politiche di reinserimento al lavoro che appunto mirano a rendere le persone economicamente autosufficienti e “libere” dall’aiuto dello Stato. La peculiarità del sistema olandese, interessante per immaginare un diverso sistema di politiche attive anche nel nostro Paese, consiste nel fatto che è stato privatizzato il servizio di reinserimento al lavoro, precedentemente gestito dal servizio pubblico per l’impiego, ed è stato costruito un mercato dei servizi di reinserimento al lavoro in cui operano operatori privati in una logica di “quasi mercato”.

Probabilmente una tale impostazione sarebbe difficile da importare “tout court” in Italia, sia per motivi storici che per ragioni socio-politiche contingenti. Ragionare però su nuove modalità di collaborazione, partendo dalle buone pratiche già in essere, in un settore sempre più cruciale per il nostro modello di welfare, e la sua sostenibilità, è certamente auspicabile lavorando, prima di tutto, sulle competenze che ogni soggetto può portare alla rete e immaginare una struttura di “convenienze” che premino, coerentemente con la naturale mission “profit”, l’operatore privato che accetta la sfida delle “nuove” politiche attive per il rilancio dell’occupazione nell’era post-Covid.







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