IL CASO/ Un altro “ostacolo” si abbatte sulla riforma di Monti

- Guido Canavesi

Nella riforma che sta discutendo con le parti sociali, il governo dovrà anche affrontare il tema delle politiche attive dei servizi per il lavoro. Ce ne parla GUIDO CANAVESI

Operaio_MotoreR400 Foto: Infophoto

Un po’, forse, perché l’articolo 18 ha monopolizzato la scena, un po’ perché, in realtà, non è ancora chiaro cosa voglia proporre il Governo, il tema del potenziamento delle politiche attive dei servizi per il lavoro è rimasto quantomeno sotto traccia nella trattativa con le parti sociali sulla riforma del mercato del lavoro. Nell’ultima dichiarazione del ministro del Lavoro, Elsa Fornero – consultabile sul sito del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e datata 2 febbraio 2012 -, il tema, completato dalla precisazione che i servizi in parola dovranno funzionare più efficacemente nel determinare l’incontro fra domanda e offerta, è indicato come uno degli “obiettivi intermedi”, “ricavati” da quelli generali e condivisi: “la lotta alla disoccupazione, in particolare giovanile, […] l’aumento dell’occupazione femminile, l’innalzamento dei livelli retributivi attraverso la crescita della produttività dei fattori”.

Se ne doveva discutere nell’incontro del 20 febbraio, ma non risulta sia stato affrontato né in questa data, né negli ulteriori incontri che hanno preceduto la pausa voluta dal Ministro stesso per ricercare le risorse finanziarie necessarie alla riforma degli ammortizzatori sociali. In realtà, neppure è chiaro il significato dell’espressione sopra riportata (in corsivo) e dunque l’oggetto o ambito della volontà riformatrice del Governo. A giudicare, poi, dall’andamento delle trattative, secondo quanto si apprende dalla stampa, c’è il fondato rischio che l’obiettivo resti sulla carta.

Se così fosse avremo perso un’occasione importante di intervenire su un aspetto nevralgico, ma tuttora problematico, del nostro mercato del lavoro. È lecito supporre, infatti, che l’obiettivo riguardi in tutto o in parte, il sistema o, meglio, i sistemi dei servizi per l’impiego, che sono stati creati dalle Regioni nell’esercizio della loro potestà legislativa in materia di “tutela e sicurezza del lavoro” (art. 117, comma 3, Cost.) e in attuazione, prima del decreto legislativo n. 469 del 1997, poi, e soprattutto, del decreto legislativo n. 276 del 2003, noto anche come “Legge Biagi”. Del resto, è ancora aperta, fino al 24 novembre 2012, la delega al Governo per il riordino della normativa in materia di “servizi per l’impiego”, inizialmente prevista dall’art. 1, comma 30, della legge 24 dicembre 2007, n. 247, e successivamente prorogata dall’art. 46 della legge 4 novembre 2010, n. 183, più famosa come “Collegato lavoro”.

Sempre l’art. 1 della legge n. 247 del 2007 fissa, al comma 31 i criteri di delegazione, ancora validi, tra i quali spicca la “valorizzazione delle sinergie tra servizi pubblici e agenzie private, tenuto conto della centralità dei servizi pubblici, al fine di rafforzare le capacità d’incontro tra domanda e offerta di lavoro, prevedendo, a tal fine, la definizione dei criteri per l’accreditamento e l’autorizzazione dei soggetti che operano sul mercato del lavoro e la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni nei servizi pubblici per l’impiego”.

Il raccordo tra operatori istituzionali o servizi pubblici per l’impiego e altri operatori, pubblici e, soprattutto, privati, costituisce un terreno politicamente scottante, su cui si gioca in buona misura la possibilità di costruire un efficace sistema di incontro tra domanda e offerta di lavoro, rispetto al quale la legislazione regionale è ancora largamente deficitaria, anche se sono da registrare interessanti segnali di un ripensamento delle scelte di fatto compiute da molte Regioni.

L’“incentivazione delle forme di coordinamento e raccordo tra operatori privati e operatori pubblici” era uno dei criteri posti dalla legge n. 30 del 2003 al legislatore delegato (il Governo) per la riforma della disciplina dei servizi per l’impiego. A esso il decreto legislativo n. 276 del 2003 ha dato attuazione soprattutto attraverso l’accreditamento, definito il “provvedimento mediante il quale le regioni riconoscono a un operatore, pubblico o privato, l’idoneità a erogare i servizi al lavoro […] anche mediante l’utilizzo di risorse pubbliche, nonché la partecipazione attiva alla rete dei servizi per il mercato del lavoro con particolare riferimento ai servizi di incontro fra domanda e offerta” (art. 2, lett. f).

Secondo l’art. 7, le Regioni avrebbero dovuto costituire l’elenco dei soggetti accreditati e definirne le forme di cooperazione con i servizi pubblici per la realizzazione delle funzioni di incontro tra domanda e offerta di lavoro, prevenzione della disoccupazione di lunga durata, promozione dell’inserimento lavorativo dei lavoratori svantaggiati e sostegno alla mobilità geografica del lavoro; ciò anche al fine di garantire la “libertà di scelta dei cittadini”.

Nell’intenzione del legislatore delegante e delegato l’accreditamento doveva costituire lo strumento per attribuire anche agli operatori pubblici e privati compiti fino ad allora propri del servizio pubblico per l’impiego e così realizzare una sinergia tra tutti gli attori del mercato del lavoro finalizzata a migliorare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Tuttavia, a oggi ben 11 tra Regioni e Province Autonome non hanno ancora provveduto a dare alcuna attuazione alla Legge Biagi (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Lazio, Molise, Sicilia, Valle D’Aosta, Umbria, Puglia, oltre alle Province di Trento e Bolzano). Abruzzo e Puglia, peraltro, hanno in tempi recenti disciplinato il solo accreditamento, la prima con un provvedimento della Giunta Regionale (dgr n. 1057 del 29 dicembre 2010) la seconda con la legge regionale 29 settembre 2011. Le restanti Regioni, invece, hanno disciplinato il sistema regionale dei servizi per l’impiego e previsto, al suo interno, l’accreditamento.

Questo, tuttavia è effettivamente operativo soltanto in Friuli Venezia Giulia, Lombardia ,Toscana e Veneto, con sensibili differenze da regione a regione. Il Friuli, per esempio, ha una disciplina molto limitativa, perché sono accreditabili soltanto le “agenzie per il lavoro”, cioè i soggetti autorizzati, ai sensi degli artt. 2, 4, 5 e 6 della Legge Biagi, a svolgere le attività di somministrazione di lavoro, di intermediazione, di ricerca e selezione del personale, di supporto alla ricollocazione professionale.

Senza scendere nei dettagli dei differenti regolamenti, tuttavia, elemento comune a quasi tutte le discipline regionali, anche di legge – con eccezione della Lombardia (si veda il mio articolo pubblicato su queste pagine) – è lo sfavore con cui è stata finora valutata l’apertura agli operatori pubblici e privati. Quando non è consentita salvo che il servizio pubblico sia impossibilito a erogare la prestazione (Toscana, Marche), la loro attività è comunque prevista “in via integrativa e non sostitutiva delle funzioni provinciali” (Liguria, Emilia Romagna, Piemonte), mentre per l’affidamento del servizio è sovente richiesta una procedura ad evidenza pubblica (Abruzzo, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Puglia). Insomma, è il soggetto pubblico competente, di norma la Provincia, a valutare, con un’amplissima discrezionalità, l’opportunità di ricorre ad altri operatori. Come dire che è lo stesso fornitore del servizio a decidere se e come farsi sostituire. Con buona pace del ricordato principio di “libertà di scelta”.

A sfavore di scelte di maggiore apertura ha giocato soprattutto una pregiudiziale ideologica contro la mercificazione del lavoro. A incrinarla, almeno in parte, sembrano essere ora alcuni “fatti”: la crisi economica con il vertiginoso aumento del numero dei disoccupati e, soprattutto, l’impegno assunto dalle Regioni e le Province autonome nell’accordo del 2009, con il Governo e le parti sociali, di erogare a tutti i beneficiari di ammortizzatori sociali in deroga un’attività di politica attiva del lavoro. Anche laddove i servizi pubblici sono riusciti a far fronte alla mole di interventi richiesti è stato evidente che il problema non è quantitativo, ma qualitativo, richiede cioè conoscenze, competenze professionali e specializzazioni settoriali di cui spesso gli operatori istituzionali non sono in possesso e altresì sinergie che sappiano offrire all’utente un percorso personalizzato che l’accompagni nella ricerca e, sperabilmente, nell’inserimento lavorativo.

A quanto si sa, Umbria, Marche, Piemonte, Lazio, Sicilia e Sardegna stanno valutando se regolare o stanno procedendo a regolare – o riformare, come la Toscana – la materia dell’accreditamento. Tuttavia, la logica che informa i progetti conosciuti non sembra discostarsi molto da quella sopra richiamata: certamente un passo avanti, ma zoppo in partenza. Non si vuole riconoscere la dignità sociale e perfino pubblica dell’intrapresa privata, profi o non profit, nel rispondere al bisogno del lavoro. La sua parità con i servizi pubblici nell’erogazione di determinati servizi e prestazioni, fermo restando il ruolo delle istituzioni pubbliche di governance del sistema.

Qui sta probabilmente la vera carenza del nostro mercato del lavoro, su cui sarebbe utile che il legislatore nazionale offrisse qualche indicazione, pur nel rispetto dei rispettivi ambiti di competenza: manca, tanto nella legislazione nazionale quanto in quella regionale, un’idea forte di governance, l’individuazione di un centro ordinatore del sistema, che non si riduca alla sterile affermazione di priorità di un soggetto, quello pubblico istituzionale, sugli altri, gli operatori pubblici e privati.





© RIPRODUZIONE RISERVATA

I commenti dei lettori

Ultime notizie