Da varie settimane i giuristi del lavoro analizzano la complessa riforma introdotta dalla legge n. 92 del 2012: una legge che – come già osservato, anche su queste pagine, da autorevoli commentatori – “non piace a nessuno”. Si potrebbe azzardare, affermando che ciò, tutto sommato, può costituire un pregio. Un simile giudizio, formulato dalle opposte sponde politico-sindacali, potrebbe infatti dimostrare che, alla fine, si è attuato un equilibrato bilanciamento tra le opposte esigenze. In realtà, i quasi 200 commi che compongono la legge n. 92 hanno contenuti così complessi e disomogenei, da rendere davvero difficile formulare un giudizio complessivo sul provvedimento.
Quella legge, infatti, mescola alcune norme che, pur con non poche contraddizioni, vanno sicuramente incontro alle esigenze delle imprese (in tal senso è sicuramente orientata, quantomeno nel suo complesso, la nuova disciplina dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori; lo stesso si può dire della disposizione che dà alle imprese la possibilità di stipulare un contratto a termine con il nuovo dipendente senza specificare la relativa causale), con molte altre che, al contrario, introducono maggiori costi o vincoli per i datori di lavoro (si pensi agli aumenti contributivi; o alla reintroduzione della “procedimentalizzazione” delle dimissioni, ora estesa anche alla risoluzione consensuale; o ancora alle misure in materia di lavoro a progetto e collaborazioni autonome; ma gli esempi potrebbero continuare).
È dunque, a mio avviso, consigliabile procedere, analizzando i singoli segmenti di quel provvedimento, per comprendere quali realmente siano le modifiche da essi apportate ai singoli istituti (licenziamento, contratti a termine, dimissioni, congedi, ecc.) che regolano il rapporto di lavoro. Neppure tale approccio, tuttavia, risparmia difficoltà: il pur elevato livello di competenze scientifiche delle quali è portatore l’esecutivo, infatti, non ha impedito a questo di varare una riforma piuttosto ricca di lacune ed errori tecnici (non dimentichiamo comunque il Parlamento, il quale, dopo aver “patteggiato” una miriade di emendamenti al disegno originario, da tale punto di vista ha le sue belle responsabilità).
Esaminiamo, ad esempio, le discipline dei licenziamenti collettivi: una materia che possiamo definire strategica, visto che uno dei “compiti a casa” più importanti a suo tempo assegnatoci dall’Europa era quello di intervenire sulle discipline dei licenziamenti motivati da ragioni economiche. Il “saldo netto” delle novità introdotte in materia dalla legge n. 92 può definirsi positivo per le imprese.
In precedenza, ogni recesso adottato nell’ambito di applicazione delle discipline dei licenziamenti collettivi, del quale si evidenziassero profili di non conformità a legge – vuoi per vizi procedurali che per errata applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori -, comportava l’applicazione del vecchio articolo 18: cioè una reintegrazione nel posto di lavoro accompagnata, di regola, dall’obbligo di pagamento di tutte le retribuzioni e contribuzioni maturate dalla data del recesso a quella della reintegrazione stessa. Considerato che, non di rado, la sentenza interveniva a distanza di qualche anno dal licenziamento, l’onere economico per l’impresa rischiava di essere particolarmente pesante.
Ora, invece, l’art. 1, comma 46, della legge n. 92, considera tre diverse ipotesi:
A) licenziamento non intimato per iscritto: la sanzione è ancora quella della reintegrazione piena, con disciplina del tutto simile a quella del vecchio articolo 18; ma si tratta di un caso limite, nel quale, per la gravità del vizio, la sanzione è pienamente giustificata (e nel quale, soprattutto, il datore dimostra un livello di incompetenza che lo rende davvero indifendibile);
B) vizio nella procedura di informazione/consultazione sindacale, regolata dall’art. 4 della legge n. 223 del 1991: in questo caso, per l’impresa il vantaggio, rispetto alla disciplina previgente, è netto; il lavoratore, infatti, non ha più diritto alla reintegra, ma solo a un’indennità (peraltro non soggetta a contribuzione previdenziale) di importo graduabile tra 12 e 24 mensilità;
C) individuazione dei lavoratori da licenziare in violazione dei criteri di scelta previsti dalla legge (anzianità, carichi di famiglia, esigenze tecnico-produttive) o dalla contrattazione collettiva: in questo caso, invece, c’è di nuovo la reintegra; e, tuttavia, anche tale disciplina è migliorativa, per l’impresa, rispetto a quella previgente: le retribuzioni da pagare nel periodo compreso tra il licenziamento e la sentenza, infatti, saranno, al massimo 12, anche nel caso in cui la condanna intervenga dopo anni; le contribuzioni, invece, saranno, di regola, parametrate all’intero periodo, ma il datore di lavoro non dovrà pagare sanzioni per il ritardato versamento.
Considerato quanto previsto nelle ipotesi b) e c) (si ribadisce che l’ipotesi a) è davvero border line, e quindi non fa testo), il rischio economico di un licenziamento intimato nell’ambito di una riduzione di personale è, dunque, davvero minore rispetto al passato. Tuttavia, nella nuova disciplina si evidenziano anche lacune e contraddizioni. Innanzitutto, essa non contempla l’ipotesi della totale omissione della procedura di informazione/consultazione sindacale prevista dalla legge. Si tratta di una “svista” di non poco conto: in mancanza di specifiche indicazioni, infatti, il vizio sembra rientrare nell’ipotesi sopra indicata sub lettera b), e cioè nel vizio di procedura. E tuttavia, è chiaro come, in tal modo, la disciplina assuma un assetto ben poco razionale: l’imprenditore che omette del tutto la procedura, infatti, viene “punito” allo stesso modo di quello che la procedura affronta, anche se commettendo errori; ma, soprattutto, il primo viene punito molto meno duramente di chi la procedura ha rispettato in pieno, e poi, semplicemente, ha sbagliato nell’applicare i criteri di scelta ai singoli lavoratori.
Va poi ricordato che, secondo una giurisprudenza sino a oggi assolutamente consolidata, tra i vizi della procedura va incluso quello consistente nell’omessa indicazione, nella comunicazione conclusiva (la cosiddetta “lista di mobilità”) delle modalità con le quali i criteri di scelta vengono applicati. Anche in questo caso andrebbe, a rigore, applicata la sanzione sopra indicata sub lettera b), con conseguente spettanza al lavoratore del solo indennizzo. Ma è chiaro che anche questo vizio è più grave rispetto a quello che si realizza quando le modalità di applicazione dei criteri di scelta siano state chiaramente indicate, e poi vi sia stato un errore nell’applicazione stessa: errore che, come già detto, viene punto con la più severa reintegra.
Per chi frequenta i Tribunali, non è difficile prevedere che le difese dei lavoratori, con argomenti tutt’altro che peregrini, chiederanno alla giurisprudenza di adottare un’interpretazione “costituzionalmente orientata” (ovvero di sollevare eccezioni di incostituzionalità), al fine di “traghettare” molti vizi di procedura nella fattispecie punita con la reintegrazione. Ma la nuova disciplina contiene anche altri potenziali “trabocchetti”.
La legge n. 92 afferma espressamente che le eventuali lacune della comunicazione di avvio della procedura che, ai sensi dell’art. 4, l. n. 223 del 1991, deve essere inviata ai sindacati, al fine di fornire tutte le informazioni sul progetto di riduzione del personale, possono essere sanate con l’accordo conclusivo della procedura stessa. Sembrerebbe una novità importante; e di fatto lo è, perché fa giustizia di alcune prese di posizione di una parte della giurisprudenza che, soprattutto in passato, ha considerato con eccessivo formalismo gli oneri procedurali imposti dalla legge, omettendo di prendere atto che, nel caso in cui il confronto con il sindacato sia stato pieno, e abbia riguardato anche i dati eventualmente omessi nella comunicazione iniziale, la volontà della legge è stata sostanzialmente rispettata.
Tuttavia, le imprese e coloro che, per loro conto, gestiscono le procedure, dovranno fare molta attenzione. La norma, infatti, viene già interpretata nel senso che la sanatoria non è affatto automatica, ma deve essere espressamente prevista nell’accordo collettivo che chiude la mobilità; e, soprattutto, essa deve avere un oggetto ben individuato, cosicché solo le lacune della comunicazione iniziale che siano state espressamente indicate nell’accordo sindacale possono dirsi sanate. Se, quindi, l’accordo di mobilità non fa alcun cenno dei dati non comunicati, secondo tale impostazione il vizio non può dirsi sanato.
Paradossalmente, quindi, si può realizzare una situazione peggiore, rispetto a quella prefigurata da una cospicua giurisprudenza, che, nel vigore della vecchia disciplina, adottava un approccio esattamente opposto a quello, più rigoroso, al quale si è fatto prima cenno. Tale giurisprudenza, infatti, escludeva quasi automaticamente la possibilità di censurare le omissioni contenute nella comunicazione di avvio della procedura, qualora la procedura si fosse conclusa con l’accordo sindacale; e ciò, anche nell’ipotesi (ricorrente nella quasi totalità dei casi), nella quale quell’accordo dava semplicemente atto del “regolare” espletamento della procedura, senza altro specificare.
Dunque, nonostante i vantaggi introdotti per le imprese, non è detto che, nel nuovo regime, sia più facile procedere a un licenziamento collettivo. Anzi, se si considerano gli effetti della riforma degli ammortizzatori sociali, si può affermare che, in futuro, aumenteranno le difficoltà. Ricordiamo, al riguardo, che le imprese sono particolarmente interessate a gestire gli esuberi su base consensuale: incentivare l’accettazione, da parte dei lavoratori, dei recessi, comporta, infatti, un indubbio vantaggio, anche sotto il profilo dei costi, in quanto evita sia il contenzioso con i singoli lavoratori, sia l’inasprirsi dei rapporti sindacali.
Da questo punto di vista, tuttavia, la legge n. 92 non aiuta. Come noto, infatti, i dipendenti licenziati, all’esito di procedure di licenziamento collettivo, da imprese rientranti nell’ambito di applicazione della disciplina della cassa integrazione guadagni straordinaria (imprese industriali con oltre 15 dipendenti e molte altre) oggi godono dell’indennità di mobilità, che assicura loro all’incirca l’80% della retribuzione, per periodi di 12, 24 e 36 mesi, a seconda che la loro età anagrafica sia, rispettivamente, sino a 40, oltre 40 e oltre 50 anni. Nel Mezzogiorno la durata è elevata di ulteriori 12 mesi.
Tra il 2013 e il 2016, però, tali durate verranno progressivamente ridotte, sino a quando, dal 1° gennaio 2017, l’istituto verrà integralmente sostituito dall’Aspi, e cioè dall’assicurazione contro la disoccupazione applicabile a tutti i lavoratori, che, in tutte le zone d’Italia, avrà una durata di soli 12 mesi, elevati a 18 per gli ultracinquantacinquenni. Inoltre, il trattamento Aspi, inizialmente pari anch’esso all’80% della retribuzione, verrà ridotto del 15% dopo i primi 6 mesi e, per gli ultracinquantacinquenni, di un ulteriore 15% dopo 12 mesi. Tale peggioramento del trattamento previdenziale renderà molto più difficile “contrattare” gli esodi, poiché, soprattutto in una fase di crisi dell’occupazione, quanto ricevuto in meno, in termini di trattamento previdenziale, verrà dai lavoratori preteso in più, in termini di incentivo economico a carico dell’impresa. È facile immaginare quanto detta “innovazione” peserà sulla gestione degli esuberi.