Le problematiche legate al licenziamento per giustificato motivo oggettivo non si riducono “solo” all’individuazione delle ragioni economiche e/o organizzative che possono legittimare l’interruzione del rapporto di lavoro e alla dimostrazione del legame che deve sussistere tra quelle ragioni e la soppressione di una ben determinata posizione lavorativa. Quando si decide di licenziare un lavoratore per giustificato motivo oggettivo si pone anche il problema del cosiddetto “repechage”, ovvero di dimostrare che per quel lavoratore, in azienda, non ci sono altre soluzioni occupazionali compatibili con la sua professionalità e con il suo pregresso percorso lavorativo.
Com’è intuibile, si tratta di una prova (soprattutto per le imprese medio-grandi) particolarmente difficile, al limite del “diabolico”, e dalle implicazioni gravi: se il repechage poteva essere effettuato, il licenziamento è illegittimo (e secondo qualche sentenza da ciò conseguirebbe addirittura la reintegrazione nel posto di lavoro per le aziende che occupano più di quindici dipendenti). Circa la prova dell’impossibilità del “ripescaggio”, la giurisprudenza fornisce però indicazioni confliggenti.
Secondo un primo consolidato orientamento, il lavoratore che impugni il licenziamento ha il dovere di “collaborare” con il proprio datore di lavoro nell’accertamento di un possibile repechage, indicando nel suo ricorso giudiziale l’esistenza di altri posti di lavoro nei quali egli poteva essere utilmente ricollocato. Solo a fronte di questa indicazione, scatta il dovere per il datore di lavoro di dimostrare l’inutilizzabilità del dipendente licenziato in quei posti (con la conseguenza che, se il lavoratore non formula nessuna allegazione al riguardo, viene meno qualsivoglia discussione in merito all’obbligo di repechage).
In base a un secondo (e più recente) orientamento, il licenziamento si può giustificare solo se costituisce una “extrema ratio“, il che comporta l’onere per il datore di lavoro di dimostrare anche l’impossibilità del repechage (a prescindere dalle allegazioni al riguardo del dipendente, che spesso non è neppure in grado di sapere se ci sono altre posizioni che potrebbe ricoprire).
Il contrasto tra i due predetti orientamenti è divenuto particolarmente eclatante nel corso di quest’anno: tra marzo e giugno (ovvero nel giro di appena quattro mesi) si sono susseguite ben tre sentenze delle Corte di Cassazione (ovvero del massimo organo di legittimità) che hanno evidenziato ora l’uno, ora l’altro orientamento.
Con una prima sentenza (n. 5592 del 22 marzo 2016), la Corte Suprema ha diffusamente illustrato l’erroneità del primo orientamento (quello secondo il quale il lavoratore licenziato ha l’onere di allegare l’esistenza di un possibile repechage) e ha affermato a chiare lettere che grava sul datore di lavoro la prova della ricorrenza di tutti gli elementi costitutivi del licenziamento e tra essi è compresa anche la prova dell’impossibilità del repechage, “senza alcun onere sostitutivo del lavoratore“.
A fronte di questa articolata e motivata sentenza dovrebbe trarsi la conclusione che il primo orientamento è ormai superato, senonché meno di due mesi dopo la Corte di Cassazione smentisce se stessa: con sentenza n. 9467 del 10 maggio 2016 la Corte Suprema torna ad affermare (come se nulla fosse) che dal lavoratore che impugni il licenziamento si deve esigere “una collaborazione nell’accertamento di un possibile repechage, mediante l’allegazione dell’esistenza di altri posti di lavoro nei quali egli poteva essere utilmente ricollocato, e conseguendo a tale allegazione l’onere del datore di lavoro di provare la non utilizzabilità nei posti predetti“.
Non è finita: circa un mese dopo la Corte di Cassazione torna a occuparsi della questione e con sentenza n. 12101 del 13 giugno 2016, riccamente motivata, ribadisce che l’onere della prova circa l’impossibilità del repechage grava solo ed esclusivamente sul datore di lavoro.
A questo punto, la questione non può certo essere risolta “calcisticamente” sulla base del recente 2 a 1 (anche perché non si tratta di una “partita” terminata) o ricorrendo al “testa o croce”: attesa la particolare delicatezza e complessità della materia c’è da augurarsi che la Corte di Cassazione affronti e decida (finalmente e quanto prima) il prossimo caso a Sezioni Unite, in modo da fornire una soluzione univoca e definitiva alla vicenda.
Ciò è particolarmente auspicabile, anche perché nel frattempo la discussione sul repechage è andata ulteriormente allargandosi, a fronte del “nuovo” articolo 2013 c.c. (nel testo introdotto dal D.Lgs. n. 81 del 15 giugno 2015), che ha modificato la disciplina relativa alle mansioni che possono essere assegnate al lavoratore. Quella norma consente infatti al datore di lavoro di assegnare al dipendente “mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale“, “in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore“.
Non solo: quella norma, al fine di conservare il posto di lavoro, consente altresì al datore di lavoro e al dipendente di stipulare accordi (in “sede protetta”) sensibilmente modificativi delle mansioni, dell’inquadramento e della retribuzione. Il che, inevitabilmente, rende notevolmente più complicato dimostrare l’impossibilità di un repechage.