La scorsa settimana la Caritas ha effettuato una indagine sulla povertà in Italia. Intervistando le circa 280.000 persone che si sono rivolte ai centri di ascolto nei primi mesi del 2025 è emerso che non solo chi sperimenta la mancanza di lavoro, ma anche chi ha un’occupazione è impossibilitato a vivere dignitosamente.
Analizzando i dati occupazionali raccolti emerge con chiarezza quanto sia mutato il profilo dell’utenza che si rivolge a questa organizzazione cattolica. Infatti, nel corso degli ultimi quindici anni, compare una profonda trasformazione del fenomeno stesso della povertà.
Nel 2007 le persone spinte a chiedere aiuto e in cerca di prima o nuova occupazione rappresentavano il 66% del totale, oggi sono il 48%, mentre gli occupati si attestavano al 15% e oggi sono cresciuti al 23%. La fragilità occupazionale che viene evidenziata da questa indagine è maggiormente nella disoccupazione e nel “lavoro povero”.
L’aumento della presenza di working poor tra le persone che si rivolgono ai servizi Caritas evidenzia come l’occupazione non costituisca più, di per sé, una garanzia di sicurezza economica e inclusione sociale.
Il fenomeno del lavoro povero rappresenta una delle contraddizioni più gravi del nostro tempo, soprattutto in un Paese come l’Italia, in cui il lavoro dovrebbe essere fondamento di dignità e strumento di partecipazione alla vita sociale. Per questo è urgente porre al centro dell’agenda politica e sindacale la questione del lavoro povero, non solo come problema economico, ma come emergenza etica e sociale.
Per “lavoro povero” si intende una condizione in cui le persone, pur essendo occupate, non riescono a garantirsi un’esistenza dignitosa.
I lavoratori italiani sono sempre più poveri e vedono ridursi la capacità di proteggere, dal disagio economico, le loro famiglie. In Italia, secondo i dati più recenti, oltre tre milioni di lavoratori vivono in una condizione di povertà lavorativa, con punte preoccupanti nel settore dei servizi, dell’agricoltura, della logistica e tra i giovani e le donne.
Il lavoro povero, però, non nasce da una scarsa copertura contrattuale, ma dal non rispetto o da un uso distorto della contrattazione collettiva, dalle non scelte di politica industriale degli ultimi decenni (alcuni inneggiavano alla decrescita felice come “sviluppo” del nostro Paese) che hanno fatto sì che in Italia si abbassasse il livello di qualifiche professionali richieste, dall’assenza di coordinamento fra politiche formative e industriali che ha impedito di far crescere le poche professionalità che il mercato del lavoro ricerca e dal rallentamento delle dinamiche salariali,
dai contratti pirata cioè quelli siglati da sedicenti confederazioni nazionali di datori di lavoro e di lavoratori, dall’uso scorretto di istituti come il part-time involontario, la piaga del lavoro nero e l’abuso dei contratti a termine.
C’è inoltre un’evidente questione di cultura imprenditoriale italiana, che spesso fa fatica a valorizzare adeguatamente le risorse umane e la professionalità delle lavoratrici e dei lavoratori, con la perdita di competitività delle imprese, fortemente destrutturate, e del sistema economico nel suo complesso.
Coloro invece che propongono il salario minimo per legge come strumento capace di superare questi problemi sbagliano, in quanto non andrebbe a superare le illegalità o le evidenti distorsioni, ma rischierebbe, dato il contesto culturale italiano, di dare una copertura proprio a queste illegalità.
Lavoro povero e salario minimo hanno ragioni e finalità diverse e l’uno non può essere la soluzione dell’altro. Basti pensare che il primo ha bisogno di un rafforzamento del sistema contrattuale, mentre il salario minimo rischia di indebolire la copertura contrattuale, che in Italia è comunque tra le più alte d’Europa, cioè oltre il 90%, e la rappresentanza sindacale sia dei lavoratori che delle imprese, innescando meccanismi di disgregazione del sistema e diminuzione della copertura salariale.
Vi è inoltre una questione importante che spesso il dibattito non approfondisce adeguatamente. Il costo contrattuale previsto dai Ccnl, siglati da Cisl, Cgil e Uil, contiene anche i costi della quattordicesima, del welfare integrativo, della previdenza integrativa, dei fondi interprofessionali per la formazione, senza dimenticare quelli gli istituti come la tredicesima e il Tfr, che nelle proposte del salario minimo di legge non sono contemplati.
Le tutele necessarie per uscire dal lavoro povero e dalla piaga del lavoro nero sono molteplici. In primo luogo, valorizzare la contrattazione collettiva come strumento fondamentale di giustizia sociale, firmando i contrati nazionali e quelli aziendali. Perseguire un costante rafforzamento del sistema contrattuale e di relazioni industriali che consenta di ampliare la copertura contrattuale e sostenere un aumento dei salari medi netti, che sono oltremodo bassi rispetto alla media europea.
Occorre poi combattere il lavoro irregolare e rafforzare i controlli ispettivi. La precarietà va affrontata con politiche che incentivino la stabilizzazione, investendo nella formazione continua e nella valorizzazione delle competenze. È indispensabile, inoltre, sostenere la contrattazione inclusiva, in grado di rappresentare anche i lavoratori più marginalizzati.
È questa la strada regina per superare le cause del lavoro povero che rischia di essere un grande problema per il sistema economico italiano e una delle cause che vedono i lavoratori qualificati, specialmente quelli più giovani, preferire in molti casi anche l’emigrazione.
Alla radice del problema vi è un modello economico che troppo spesso sacrifica il valore del lavoro sull’altare della competitività a breve termine. La Dottrina sociale della Chiesa ci ricorda, invece, che “il lavoro è per l’uomo e non l’uomo per il lavoro”. È dunque doveroso riaffermare la centralità del lavoro dignitoso, stabile e giustamente retribuito come pilastro del bene comune.
Il Governo e l’opposizione, il sindacato e i datori di lavoro devono investire su un’economia sostenibile e al servizio della persona, nella quale il lavoro non sia una merce, ma uno strumento che costruisce la società. Il contrasto al lavoro povero non è solo una battaglia sindacale, è una responsabilità morale, un’opera di giustizia sociale. Restituire dignità al lavoro significa restituire speranza a milioni di persone. E non può esserci vera crescita, né coesione sociale, senza giustizia sul lavoro.
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