Nel mio libro “Passaggio al futuro. Oltre la crisi, attraverso la crisi” (2010) sviluppo il tema di come per andare veramente oltre la crisi sia necessario riconquistare una corretta concezione d’impresa. E parto dalla critica di un criterio guida che ha dominato il pensiero economico negli ultimi venti anni e che è all’origine di tante distorsioni che hanno contribuito a porre le basi della crisi.
Mi riferisco al perverso principio che scopo dell’impresa e del management sarebbe solo quello di massimizzare il valore per gli azionisti. «La tesi della massimizzazione del valore per gli azionisti è l’idea più sciocca del mondo» (“Shareholder valuemaximization is the dumbest idea in the world”). Questa dichiarazione è stata rilasciata da uno dei maggiori Ceo dell’epoca d’oro dello “star system”, il mitico Jack Welch, a lungo Ceo della General Electric, allora la società di maggiore successo del mondo, al Financial Times, del 16 marzo 2009 che sostiene: “Shareholder value maximization is dead” e che argutamente commenta: «Una rivoluzione di palazzo nel regno degli affari sta rovesciando la dittatura della massimizzazione degli azionisti come unico principio guida nella strategia aziendale e, come spesso accade nei regicidi, molti dei coltelli sono nelle mani dei tirapiedi del vecchi regime».
L’articolo prosegue illustrando le ragioni per cui questo improprio principio viene abbandonato: le buone imprese si basano su un equilibrato sistema di relazioni di fiducia tra manager, dipendenti, clienti, fornitori, nel breve e nel lungo periodo, e la responsabilità del buon manager è di perseguire questo equilibrio nel tempo, spiegando agli azionisti che il perseguimento della “massimizzazione di valore”solo per gli azionisti è, alla lunga, un danno anche per loro.
Molti dei grandi problemi messi a nudo dalla crisi derivano anche da un’impropria concezione dell’impresa e della sua posizione e funzione nella società, e da una non corretta concezione del management, della sua funzione e della sua responsabilità. È questa concezione alla base dell’esplosione dell’impresa irresponsabile, mai così diffusa come negli ultimi venti anni e della perversa concezione economica che ha visto come centro e motore dello sviluppo il principio: “Fiat capital gain et pereat omnia”.
Il principio “Fiat capital gain et pereat omnia” ha finito per influenzare non solo le gestioni imprenditoriali, ma anche le gestioni familiari, i criteri di risparmio o non risparmio, i fondi di investimento, i media. Assomiglia alla teoria del campo dei miracoli con la quale il gatto e la volpe riescono a convincere Pinocchio a sotterrare e innaffiare i suoi scudi; e tanti, milioni e milioni, sono i Pinocchio che ci sono cascati, disattendendo i buoni consigli del grillo parlante.
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Come ho cercato di spiegare nel mio libro, noi non veniamo da un’economia di mercato e imprenditoriale. Veniamo da quello che è stato via via chiamato ultracapitalismo, supercapitalismo, capitalismo totale, capitalismo finanziario selvaggio, tutto meno che da un’economia di mercato. Veniamo da una degenerazione sia del mercato che della finanza, degenerazione che, per essere rimossa, necessita innanzitutto, di una correzione di pensiero.
Sul valore fondante del mercato per un’economia libera non credo di dover spendere molte parole. Sulla finanza, invece, proprio nel momento in cui essa è oggetto di tante giuste critiche e preoccupazioni per le degenerazioni e gli abusi che l’hanno contraddistinta, è importante sottolineare la sua funzionalità, la sua necessità, la sua essenzialità. La finanza è una disciplina e una tecnica preziosa, che ci insegna a gestire con rigore e severità i beni che ci vengono temporaneamente affidati; che ci aiuta a far sì che i talenti abbiano un corretto rendimento; che assolve al fondamentale compito di distribuire nel tempo e nello spazio costi che individualmente non potremmo sostenere, e quindi a rendere possibili opere preziose che, senza la finanza, non sarebbero realizzabili, di rendere mobili beni altrimenti immobili.
Non vi è dubbio che un’economia di mercato dinamica non può esistere senza un sistema finanziario sviluppato e sano. Ma anche la finanza, per essere utile, va fondata su principi e regole serie e sulla verità e responsabilità. Gli ultimi venti-trenta anni sono anni di finanza sempre più sottratta a ogni principio e a ogni regola seria; sempre più lontana dalla verità, sempre più nello stile del gatto e la volpe del grande Collodi, sempre più mal guidata dal principio fiat capital gain et pereat omnia. Perciò è necessario cambiare il paradigma economico.
Dobbiamo rimuovere dal centro il fiat capital gain et pereat omnia; dobbiamo rimettere il ROE al posto che gli compete, che è un posto dignitoso ma non dominante. E cosa dobbiamo mettere al loro posto? Quale nuovo brocardo possiamo inventare? La discussione è aperta e tutti possono dare il loro contributo, meno, ovviamente, quelli che dicono che non c’è niente da cambiare. L’importante è non perdere di vista la direzione di marcia: dobbiamo rientrare nel capitalismo di mercato e imprenditoriale, fuoriuscendo dal capitalismo totale, o supercapilatismo.
Dice Drucker, probabilmente il più importante studioso di management degli ultimi 60 anni: “Le imprese sono organi della società. Non sono fine a se stesse. Esistono per svolgere una determinata funzione sociale. Sono strumenti per assolvere fini che le trascendono”. E se andiamo a vedere l’economista che più di ogni altro ha capito la natura dell’impresa e il ruolo determinante che essa ha nella nostra società, cioè Schumpeter, troviamo la più efficace, la più forte, la più incisiva definizione d’impresa della letteratura mondiale, quando dice: “Designiamo con il termine impresa le attività consistenti nella realizzazione di innovazioni, chiamiamo imprenditori coloro che le realizzano”. Cioè l’impresa ha il compito di produrre innovazione, questa è la sua missione sociale, è la sua intrinseca natura, è la sua etica, la sua legittimazione. Allora è etica un’impresa che realizza questa sua missione profonda.
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Quando ciò non avviene, l’impresa è segnata, prima o poi, anche se produce un ROE elevato. L’impresa moderna non è solo un centro di produzione e di accumulazione del profitto. Perciò coloro che da un lato la esaltano come pura produttrice di profitto, e coloro che, dall’altro, la additano al pubblico odio, come una forma demoniaca di oppressione sull’uomo, sono entrambi epigoni di culture ottocentesche, sorpassate e pericolose. Essi chiamano a raccolta degli eserciti di cafoni per una insensata e dannosa guerra di religione, dalla quale sarebbe ora che ci liberassimo. La grande legittimazione dell’impresa sta nel fatto che essa è produttrice di sviluppo.
Quando si acquisisce questa nozione, l’impresa diventa un organismo che supera il conflitto capitale-lavoro, il quale sopravviverà, ma dovrà trovare nuove forme di composizione, nel quadro di un riconosciuto interesse comune. Nessuno, né la proprietà, né il sindacato, hanno il diritto di distruggere l’impresa. E il management ha la responsabilità che ciò non avvenga. Se questo è vero e se è vero, come è vero, che un’impresa che produce innovazione (e deve essere innovazione effettiva e non di panna montata come si è fatto, in gran parte, negli ultimi quindici anni) ha bisogno di operare in un contesto libero e non truccato che chiamiamo mercato, ecco che al centro del paradigma economico dobbiamo porre il mercato libero non manipolato e l’impresa responsabile.
E accanto dobbiamo mettere il lavoro. È buono ciò che crea lavoro. È cattivo ciò che distrugge lavoro e la dignità del lavoro. Dobbiamo tornare all’antico principio: omnium rerum mensura homo. Forse il travaglio che stiamo vivendo è così doloroso proprio perché stiamo faticosamente cercando di passare da un allucinato e allucinante ultracapitalismo, che aveva messo al centro il demenziale Fiat capital gain et pereat omnia, a un’economia più civile e rispettosa delle sostenibilità finanziarie, sociali, antropologiche, ambientali e consapevole che la vera “impresa dello sviluppo” è quella che sviluppa tutto l’uomo e tutti gli uomini. Forse stiamo cercando di passare (o ritornare) dall’ultracapitalismo al capitalismo di mercato e all’economia imprenditoriale. Lo sforzo da fare è grande. Ma le basi per questo sforzo non mancano.
In primo luogo, la crisi stessa, la corretta analisi delle sue ragioni, della sua natura, delle sue conseguenze. E poi il grande pensiero economico liberale che non ha mai dubitato della possibilità, anzi della necessità, di conciliare economia di mercato e imprenditoriale ed economia umana e umanistica. Parlo degli Einaudi, dei Roepke, degli Erhard, degli Eucken, di tutta la scuola di Friburgo e del grande filone dell’economia sociale di mercato, che ha vinto in Germania e che è, oggi, una delle poche concezioni economiche che hanno passato, con successo, tutte le prove. E poi vi è il grande pensiero social-liberale così attento al “people first”.
E infine vi è la Dottrina sociale della Chiesa, che da sempre impegnata sul tema “omnium rerum mensura homo” ha, con la Centesimus Annus, raggiunto un vertice di elevato livello anche come pensiero economico e ha chiaramente visto la necessità di passare dall’economia supercapitalista all’economia di mercato e dell’impresa: “Se con ‘capitalismo’ si indica un sistema economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell’impresa, del mercato, della proprietà privata e della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libera creatività umana nel settore dell’economia, la risposta è certamente positiva, anche se forse sarebbe più appropriato parlare di ‘economia d’impresa’, di ‘economia di mercato’ e, semplicemente, di ‘economia libera”’ (Giovanni Paolo II, Enciclica Centesimus Annus).