J’ACCUSE/ Ecco perché la riforma Gelmini non aiuta i giovani a trovare lavoro

- Gianni Zen

Di fronte a una corsa della disoccupazione giovanile, spiega GIANNI ZEN, la scuola italiana mostra in pieno i suoi limiti

gelmini_disastroR400 Mariastella Gelmini (Foto Ansa)

“Se tu fossi qui a Shanghai capiresti che noi italiani siamo alla decadenza. Qui si respira davvero aria di futuro. Se tu fossi qui non vorresti più tornare in Italia”. Queste brevi battute di un amico, esperto europeo dei sistemi di istruzione, al cellulare un paio di mesi fa, sono forse un po’ esagerate per la carica di emotività che trasudano. Ma dicono purtroppo il vero sul nostro sistema Paese, conservatore sino al midollo e incapace di pensieri lunghi in politica come nei diversi contesti di relazione.

A fronte di una corsa della disoccupazione soprattutto giovanile, causa l’allargamento globale del mercato del lavoro, che cosa noi possiamo offrire ai nostri giovani? La riforma Gelmini, risultato di vari tentativi degli ultimi 15 anni, in realtà nasce già vecchia. Segnata, alla resa dei conti, non dalla domanda “quale migliore scuola per i giovani di oggi”, ma dai compromessi sugli organici, da una logica dei tagli lineari che non rispetta la realtà effettuale.

Nasce già vecchia perché offre degli indirizzi di studio che sono uno spezzatino di tante, troppe materie, per cui la preparazione finisce per essere superficiale e banalizzata. Nonostante queste contraddizioni, è comunque un passo in avanti rispetto al recente passato, ma ancora troppo debole, poco incisiva, insomma un piccolo zuccherino.

Se i partiti, i sindacati, gli studenti, gli universitari si rendessero conto di quello che sta avvenendo a livello globale dovrebbero scendere in piazza non per chiedere la follia dei posti di lavoro per decreto, ma per imporre (una sorta di “nuovo ‘68”) una vera rivoluzione culturale intorno a questi problemi. Perché non ci possono essere innovazione e creatività senza percorsi di studio aperti alle sfide della post-modernità globalizzata.

Nessuno, a quel punto, avrebbe il coraggio di ripetere vecchi slogan ideologici, legati a un passato che non c’è più. Perché i giovani di oggi, rispetto al nostro passato, stanno vivendo questa svolta epocale: per la prima volta il sapere non verrà più tramandato dai padri ai figli, ma saranno i figli che insegneranno i nuovi saperi ai propri genitori. Un presente dunque che vive alla giornata, in trepida attesa di un futuro che muta con una velocità esponenziale.

 

Se la scuola non è in grado di rappresentare un nuovo filo rosso tra passato e futuro (perché non ci può essere futuro senza memoria, questa la prima eredità della cultura occidentale), quale eredità consegneremo ai nostri figli? Con quali reali sbocchi occupazionali? Chiedendo allo Stato un posto di lavoro che non c’è? E chi lo paga questo lavoro che non c’è? I soliti lavori socialmente utili caricati sul debito di Stato?

 

Con la chiusura dell’Expo di Shanghai di fine ottobre, il passaggio del testimone passa ora a Milano nel 2015. Sarà l’ultimo treno per l’Italia, prima della definitiva decadenza e marginalizzazione dai grandi flussi dell’innovazione e della ricerca?





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