Le scelte operate dalla Fiat hanno un indubbio merito, quello di aver gettato un sasso nelle acque stagnanti del nostro sistema di relazioni industriali, riportando a galla questioni annose, definite come dei “veri e propri tabù”, quali la rappresentanza sindacale e l’efficacia soggettiva del contratto collettivo, favorendo una riflessione che sembrava ormai inutile.
Tranne qualche voce, poche in realtà, che hanno cercato di minimizzare i problemi, si è parlato di “scossone”, di “shock”, di “obsolescenza ormai irreversibile del nostro sistema di relazioni industriali”, si è detto che nulla sarà mai più come prima e da più parti si sono invocate nuove regole, ad esempio, auspicando una estensione di quelle sulla rappresentanza sindacale del settore pubblico a quello privato.
Indubbiamente, la governabilità del sistema di relazioni industriali è minata dalla rottura dell’unità sindacale e la conflittualità tra le maggiori organizzazioni di rappresentanza degli interessi dei lavoratori rivela che la carenza sta nella mancanza di regole capaci, da un lato, di sottrarre al potere di veto di una organizzazione, sia pure maggiormente rappresentativa, le dinamiche dell’azione sindacale e, in particolare, della contrattazione collettiva; dall’altro, di assicurare, pur nel conflitto, la democraticità del sistema, come richiede la Costituzione all’articolo 39. Ed è pur vero che, a fronte dell’incapacità/impossibilità delle parti sociali di autoregolarsi, per via negoziale, neppure il principio di sussidiarietà, che pure trova nel campo sindacale un terreno d’elezione, esclude, ma, semmai, richiede, un intervento del legislatore.
Nondimeno, molteplici e di non poco conto sono i problemi giuridici e al contempo politici che un tale intervento sarebbe chiamato a risolvere. Basti pensare all’oggettiva diversità del sistema dell’impiego pubblico da quello del lavoro privato. Diversità rilevata dalla Corte costituzionale (nelle sentenze n. 309 del 1997 e n. 199 del 2003) e che preclude al legislatore di trasporre nel settore privato, con una semplice legge ordinaria, le regole sulla misurazione della rappresentatività e sull’efficacia soggettiva del contratto collettivo valevoli per quello della pubblica amministrazione.
Quella differenza, infatti, si giustifica in ragione dell’interesse pubblico all’imparzialità e al buon andamento della pubblica amministrazione (articolo 97 della Costituzione) che continua a presiedere all’intera disciplina del lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione. Inoltre, il sistema introdotto nel pubblico impiego si giustifica, rispetto al 4° comma dell’articolo 39 della Costituzione, per il fatto che non si tratta di estensione generalizzata dell’efficacia del contratto collettivo, ma del vincolo imposto alle amministrazioni pubbliche (datore di lavoro) di conformarsi agli obblighi assunti con il contratto collettivo e di garantire parità di trattamento, mentre sul versante del lavoratore, l’obbligo di conformarsi non deriva direttamente dal contratto collettivo, ma da quello individuale, vera fonte del rapporto di lavoro, in cui si opera un rinvio alla fonte collettiva.
Rispetto al lavoro privato, dunque, il nodo della questione resta la mancata attuazione della seconda parte dell’articolo 39 della Costituzione. E ciò per due ragioni: l’una, propriamente giuridica, è che, pur inattuate, le disposizioni costituzionali producono comunque l’effetto di inibire al legislatore ordinario di prevedere modalità diverse da quelle in esse previste di estensione erga omnes del contratto collettivo stipulato da organizzazioni sindacali che siano effettivamente rappresentative della maggioranza dei lavoratori della categoria o dell’ambito territoriale di riferimento.
Declinato sul piano della politica sindacale, questo effetto rappresenta un moltiplicatore della potenzialità conflittuale – ed è questa la seconda ragione – di un sindacato dotato di capacità rappresentativa e dissenziente dalle scelte delle altre organizzazioni, pur rappresentative. Peraltro, resta, a monte, l’interrogativo sulla necessità e/o opportunità di un intervento legislativo in un campo ove, come è noto, una legge che non trovi consenso è sostanzialmente inefficace; un maestro recentemente scomparso diceva che la politica deve restare fuori da un campo di autonomia sociale in cui non ha nulla da dire. Semmai, essa potrebbe servire da sostegno a un’intesa unitaria fra le parti.
Allora, per quanto di difficile attuazione nell’attuale quadro politico, forse una legge costituzionale che modificasse la parte inattuata dell’articolo 39 potrebbe rappresentare un adeguato intervento per favorire la ripresa del dialogo e la ricerca di regole condivise tra le parti sociali. In tal modo, infatti, senza mettere mano direttamente a una legge sindacale, verrebbe rimosso dal nostro ordinamento quel vincolo costituzionale che, come accennato, costituisce il potente baluardo della scelta conflittuale di alcune organizzazioni sindacali.
In realtà, la soluzione migliore resta pur sempre quella di verificare la volontà degli stessi soggetti, i soli a poter decidere delle loro regole e ordinamenti, rispettando il libero progredire delle relazioni industriali. Se anche oggi le regole non sono condivise potrebbero nel tempo diventarlo, mentre una legge rischia sempre di ingabbiare la dialettica.
Ciò che appare necessario oggi è che si superi l’idea della conflittualità permanente, verso modelli cooperativi e partecipativi, e il dogma dell’unità sindacale, accettando che il pluralismo è il fondamento della libertà sindacale, e non ci si arrocchi dietro il contratto collettivo nazionale come unico fattore di tutela dei lavoratori, in quanto trattare specifiche questioni a livello aziendale e territoriale non significa porre la parola “fine” su quello nazionale. Infine, va rivisto anche il concetto di interesse generale della categoria, che appare un residuo di concezioni marxiste e corporative.