Per celebrare l’unità d’Italia, il Circolo Calvi ha scelto di organizzare sabato 19 marzo un incontro presso la sede di Gi Group a Milano dedicato a due tematiche di grande attualità: la prospettiva federalista, riletta in termini di rapporti costruttivi tra politica e società, e le questioni della rappresentanza del lavoro. Tema, quest’ultimo, poco dibattuto sui mass media, ma che merita qualche considerazione che non si limiti all’ordine del giorno delle vicende Fiat.
È uno degli snodi della storia del Paese e delle sue prospettive future, in quanto si tratta di valutare due opzioni tra loro divergenti: la definizione degli spazi di rappresentanza delle associazioni sindacali competenza delle scelte politiche, sancite dall’intervento della legge e dalle azioni di governo; oppure la loro libera determinazione di soggetti sociali, letta in termini di interessi organizzati, responsabili verso gli interessi generali del Paese, ha valore di per sé e va tutelata.
Le vie di mezzo, riassunte nel termine “rappresentatività”, celano quel che sono, in quanto espressioni proprie della politica e non della società. Su questo piano la storia dell’azione sociale dei cattolici costituisce una chiave di lettura inequivocabile dell’intera vicenda unitaria.
In un testo del 1963, lo storico Renzo De Felice riconosceva l’impegno dei cattolici nel favorire «il passaggio dallo Stato liberale allo Stato democratico, dallo Stato di pochi allo Stato di tutti». In quei termini evocava la testimonianza esemplare resa dai cattolici italiani all’«incivilimento» del Paese. Cioè a quelle azioni di libertà disegnate da Giuseppe Toniolo nell’orizzonte della democrazia, ove l’economia era etica e le forme di rappresentanza sociale erano terra d’impegno per i molti che non si riconoscevano nei movimenti sociali animati dal socialismo.
Illuminati dalla grazia e dal senso concreto della vita come missione, i promotori dell’organizzazione sindacale bianca contribuirono a dare tessuto organizzativo a un Paese che di quei tessuti aveva necessità per poter riconoscere le esigenze del lavoro per quel che erano, nelle loro molteplici forme, lavoratore per lavoratore, territorio per territorio, parrocchia per parrocchia. Alle semplificazioni delle ideologie unificanti contrapposero il «buon volere» e le «buone battaglie», come scrisse Achille Grandi, ventenne, commentando la Rerum Novarum.
Quell’ansia di rinnovamento non si risolse in soprassalti di volontarismo, ma si tradusse in fatti concreti. Tanto diede alla nazione il radicamento profondo delle opere: mutue, casse, leghe fondarono la tradizione popolare dei cattolici nel sociale. A quest’Italia diversamente unitaria contribuirono altri. Come Agostino Gemelli: nel fondare l’Università Cattolica del Sacro Cuore si propose, nel 1921, di dare al Paese una classe dirigente forte di idealità che non riconosceva in poteri economici e politici ben poco propensi a cedere spazi di libertà e di autonomia ai soggetti sociali. Quando poi il fascismo intervenne con la forza e le sue leggi divennero flagello quotidiano della libertà, sopraggiunse la notte.
L’impetuosa corrente del secondo dopoguerra diede forma a un nuovo rapporto tra mondo del lavoro e società industriale e pose le forze sindacali libere in quel crogiolo in cui si formano i regimi democratici. Perché ciò accadesse, occorreva un disegno capace di far fruttare a un tempo istinti personali e razionalità collettive. Per quegli uomini, le diverse milizie – nel movimento cattolico, nel sindacato e nella politica – sgorgavano dalla spontaneità e dalla libertà dell’esperienza morale orientata dalla fedeltà all’uomo e alle sue ragioni.
Sotto quel principio unificatore, la democrazia veniva intesa come bene di tutti e come ambiente proprio per realizzare – non in astratto, ma nel flusso della storia della società industriale – la dignità e la libertà delle persone. In questo squarcio che diradava le tenebre del passato e vedeva una nuova classe dirigente agire per cambiare il Paese più di ogni altra prima (e poi), non bastava porsi nel crocevia di quelle tre milizie. Occorreva anche andare oltre l’affermazione dell’autonomia del sociale e postulare una concezione laica e compiutamente moderna della democrazia in una società industriale.
In questo senso operarono, fondando la Cisl, Giulio Pastore e Mario Romani, per i quali il problema della classe lavoratrice italiana non si poneva in prima istanza come problema politico, di rapporti sindacato-partito, per impadronirsi dello Stato o per chiedere assistenza e difesa. Ma come acquisto di consapevolezza della propria posizione e dell’autonoma originalità dell’esperienza sindacale al fine di connettere il progresso economico con il progresso sociale, superando l’aspettativa mitica della legge anzi, per predisporre le situazioni concrete pregiudiziali alla legge stessa. In questi margini di libertà vedevano l’unica possibilità per il mondo del lavoro di cominciare a pensare in termini di classe dirigente.