Caro direttore,
Quando nel nostro Paese si parla di giovani e di lavoro, si descrive un quadro per cui i ragazzi che si dedicano a quello manuale sono quelli che non hanno voglia o capacità per studiare. La verità è che ognuno ha un dono impresso in sé, una capacità, un talento, un “esser portato a”e il compito di ciascuno è capire che cosa sia esattamente e coltivare questo dono.
Il lavoro pratico può essere un ripiego di chi non vuole studiare, come può esserlo un posto da dipendente in qualsiasi impresa per una persona che non finisce gli studi. Tanto è vero che se un ragazzo non vuole studiare e non ha manualità non verrà mai assunto in nessuna azienda in cui si svolge un lavoro di tipo pratico. Se una persona, invece, segue il suo dono, la cosa in cui si sente realmente realizzata, allora qualsiasi sia il suo lavoro, quello che farà lascerà trasparire una bellezza evidente per lui e per tutti quelli che lo vedono in azione.
Provo a spiegarmi raccontando la mia esperienza. Ho 22 anni e faccio il falegname: lavoro in una piccola bottega nell’hinterland milanese come dipendente operaio. In azienda siamo in quattro: il mio capo, suo papà, un ragazzo poco più grande di me e io. Facciamo mobili su misura (librerie, dispense, letti, ecc.) e riparazioni di ogni genere (tapparelle, finestre, porte, persiane, ecc.): tutto purché centri col legno.
Prima ho frequentato un liceo scientifico, dove ho fatto molta fatica nello studio e, infatti, sono stato bocciato un anno. Ma quell’istituto paritario ha contribuito in me alla formazione di una mentalità di cui oggi sono ancora grato. Durante quei sei anni ho avuto l’occasione di conoscere alcuni falegnami attraverso i miei genitori e grazie a questi incontri, in cui traspirava la passione per il mestiere di san Giuseppe, si è innestato in me un seme che sarebbe germogliato dopo le superiori.
I sei anni del liceo mi erano piaciuti tantissimo, sia per gli amici che per i professori incontrati, ma l’idea di dover studiare ancora non mi andava molto. Mi appassionava molto di più lavorare con le mani, infatti ogni anno aspettavo sempre con ansia l’open day della scuola per allestire le piccole esposizioni di alcune materie scolastiche. Un anno abbiamo costruito un bancone di un irish pub per la mostra d’inglese: forse quello è stato il primissimo momento in cui si è concretizzato il mio più vero interesse.
Con i miei genitori è stata una lunga lotta, passata per molte e lunghe discussioni, perché volevano che continuassi gli studi iscrivendomi all’università. Grazie a loro due amici, Erasmo Figini e Susy Pagani, però tutto si è risolto. Erasmo è uno stilista di interni che, insieme a suo fratello, ha deciso di dedicare la sua vita all’educazione dei figli e di molti altri ragazzi che ha preso in affido, fondando con sua moglie e altre tre famiglie, tra cui quella di suo fratello, l’Associazione Cometa di Como, che ha per sede una stupenda villa dove queste famiglie abitano con circa 50 ragazzi tra figli naturali e in affido e che ha come suo punto chiave l’educazione per il bello. Susy lavora nell’arredo di interni ed è una collaboratrice di Erasmo, oltre che una “zia” per i ragazzi in affido di Cometa.
Subito dopo gli esami di maturità li ho incontrati e mi hanno aiutato a capire quali fossero le esigenze che avevo, oltre a sostenermi. In estate sono poi andato in pellegrinaggio al santuario di Czestochowa chiedendo alla Madonna di farmi capire se andare a fare il falegname sarebbe stata la mia strada. Una volta tornato ho partecipato al Pre-Meeting: due settimane di lavori di falegnameria gratuiti per costruire il Meeting di Rimini. È stato stupendo vedere un’opera crescere giorno per giorno grazie anche al contributo delle mie piccole mani.
Credo che proprio da questo nasca la passione: il dedicare se stessi alla costruzione di un’opera che non sia semplicemente un mobile, ma che sia anche un segno del significato ultimo della vita. Ecco il motivo per cui ho scelto di fare il falegname: per vedere nelle cose che costruisco la bellezza con la B maiuscola. Quella bellezza che fa fare tantissima fatica, ma che allo stesso tempo una volta compiuta riempie il cuore e fa domandare come possa essere uscita da semplici mani umane.
Terminata l’estate ho quindi incominciato a lavorare in bottega, ma dopo qualche mese ho sentito che mancava qualcosa. All’inizio non capivo: facevo quello che mi piaceva, ma non bastava. Non avrei mai creduto che quella cosa mancante fosse la teoria, cioè lo studio. Non c’è niente da fare, l’uomo per sua natura è curioso e vuole conoscere sempre di più, soprattutto quel che riguarda una cosa che lo appassiona. Così ho cominciato a cercare dei corsi serali o che comunque potessero darmi l’opportunità di lavorare.
Ne ho fatto uno sul restauro dei legni policromi a Meda all’inizio dell’anno successivo alla maturità. Dato che non esistono corsi serali di falegnameria, ho dovuto scegliere dei campi inerenti al mio mestiere, che, devo dire, sono interessantissimi A ottobre dell’anno scorso mi sono quindi iscritto a un corso di “design dell’arredo” all’Istituto europeo di design. Una fatica tutte le sere dopo il lavoro, ma è stupendo perché mi aiuta di più a conoscere un mondo su cui lavoro tutti i giorni, ma della cui esistenza non mi ero mai accorto. Mi sono iscritto anche perché mi sono accorto che nel lavoro non basta soltanto la semplice pratica.
Inoltre, queste conoscenze possono servire anche ai miei ragazzi. Già, perché la passione per il mio mestiere mi ha spinto anche a insegnare in un corso per manutentori alla Oliver Twist, una scuola dell’Associazione Cometa. Credo che preparare le lezioni, entrare in laboratorio davanti a 25 ragazzi della prima superiore sia una sfida che mi è stata data per verificare se questo gusto per la bellezza è capace di reggere. E dopo un anno di insegnamento posso dire di averne avuto dei benefici: sono cambiato, sono andato più a fondo nel significato del mio costruire, anche perché lo potessi trasmettere ai miei ragazzi.
In conclusione, i lavori sono o diventano di “serie B” non perché si usano le mani piuttosto che stare in ufficio, ma perché una persona si accontenta del suo posticino, riducendo inconsciamente o coscientemente il suo dono, la sua domanda di trovare compimento in quello che fa.
(Giovanni Bianchi)