È stato annunciato ieri dal Ministro Fornero, in un’intervista a un quotidiano, l’intervento, a breve, di modifica della riforma del lavoro (avviata pochi mesi fa) su alcuni punti; in particolare, sulla flessibilità in ingresso, e cioè sui vincoli che regolano l’effettuazione di contratti a termine. Le regole attuali prevedono sostanzialmente che per rinnovare un contratto a termine debbano passare tra i 40 e i 60 giorni, elemento che provoca di fatto l’espulsione dal mercato di molti lavoratori (almeno per il tempo di attesa). Il ministro propone di modificare tale periodo riducendo (questa è l’ipotesi di lavoro) a un mese il termine di sospensione tra un lavoro e l’altro.
Sorge immediata una domanda: perché 30 giorni di fermo tra un contratto e l’altro e non 25, 22, 20 e così via? Non sarebbe meglio togliere questi numeri e lasciare la possibilità alle persone di dare continuità all’esperienza lavorativa in corso (visto che l’azienda la offre) anziché interromperla? Non sarebbe meglio, inoltre, intervenire nel ridurre il cuneo fiscale dei contratti a termine (innalzato con la riforma Fornero) e aumentare la retribuzione netta (come accade in molti altri paesi)?
La logica sottesa a questo intervento è certamente quella della responsabilità dell’impresa nei confronti del lavoratore e di voler evitare che ci sia un uso improprio di forme contrattuali flessibili. Così, però, si rischia di bloccare tutte le situazione sul livello più basso, penalizzando soprattutto le persone (che rischiano continuamente di perdere il lavoro) e le imprese (che utilizzano i contratti a termine per situazioni e condizioni oggettive). Per affrontare il tema della responsabilità dell’impresa e dell’uso improprio dei contratti la Pubblica amministrazione potrebbe agire attraverso la propria struttura dell’Ispettorato del lavoro (effettuando un’importante propria funzione).
Credo sia importante anche ricordare, in materia di contratti a termine, che il nostro Paese ha certamente innalzato l’utilizzo di forme contrattuali flessibili negli ultimi anni, ma che oggi si trova ad avere quote di lavoratori temporanei minori di quelle dei principali paesi dell’Unione europea. L’Italia ha raggiunto alla fine del 2011 una percentuale pari al 13,4% di occupati temporanei, mentre la media europea è pari al 14,1%, la Germania è al 14,7% e la Francia al 15,3%.
C’è un altro punto toccato dal Ministro di particolare interesse e riguarda le politiche attive. Nell’intervista punta tutto ed esclusivamente sul sistema di controllo e valutazione dei risultati raggiunti. Un tema certamente importante, ma che da solo lascia poco sperare. Il nostro Paese è forse uno dei più arretrati in materia di servizi per il lavoro. Paesi come Danimarca, Belgio, Germania, Regno Unito e Australia (solo per citarne alcuni) hanno dall’inizio della crisi avviato importanti processi di revisione dei sistemi di servizi puntando sulla cooperazione tra i diversi attori del mercato del lavoro (persone, imprese, istituzioni pubbliche e operatori di servizi).
Da tali esperienze emergono evidenti fatti positivi nel contrasto alla disoccupazione, nella riduzione del mismatch tra domanda e offerta e, soprattutto, nel sostegno dei percorsi professionali delle persone. Intervenire per sostenere le persone e le imprese attraverso un sistema di servizi efficace ed efficiente è una priorità assoluta e forse non più rimandabile. Nel nostro Paese esistono molte realtà di servizi pubbliche, private e del privato sociale che stanno operando in tal senso, ma certamente ci troviamo davanti a un vuoto delle istituzioni che non valorizzano e non favoriscono fattivamente la crescita di un modello a rete che favorirebbe la crescita di un mercato del lavoro di qualità.
P.S.: Occorre non dimenticare che la riforma Fornero non riguarda il pubblico impiego che rappresenta le quote maggiori di contratti a termine e le quote minori di stabilizzazione. È stato annunciato un intervento sul pubblico impiego diversi mesi fa… Dov’è finito? Era forse un annuncio a termine di pochi mesi ed è scaduto?