Il tema della flessibilità e delle riforme del mercato del lavoro nel nostro Paese è difficile da affrontare con serenità. Infatti, queste tematiche sono da sempre “ vittime” di una lettura sotto chiave ideologica. La normativa che diede vita, prevalentemente e come sensazione comune, alla flessibilità nel mercato del lavoro, da molti interpretata come precarizzazione, mercificazione della forza lavoro, è la l. 276/2003. Già dal 1997, a ben vedere, vi era stata l’introduzione di misure per la flessibilità in entrata dei lavoratori nel mercato del lavoro, quando venne introdotto in tal senso, dalla L. 196/1997, il cosiddetto lavoro “interinale”. In questo quadro nacque la riforma Biagi.
Si trattava di una normativa d’ampio respiro, già ben delineata nel Libro Bianco del 2001 ove, tra gli altri, il Professor Marco Biagi definiva come avrebbero potuto e dovuto evolversi le normative del mercato del lavoro italiano per essere in linea con quelle dell’Unione europea. Già altri stati europei, Germania in testa, avevano introdotto forme di flessibilità: la motivazione di tale necessità è da ricercare, a sommesso avviso dello scrivente, nella globalizzazione. L’Italia che aveva potuto per anni, grazie alla debolezza della lira, disinteressarsi di innovare le nostre normative interne sul mercato del lavoro, continuava a esportare e ad accumulare debito pubblico per finanziare, ripianando le perdite di bilancio, con le casse dello Stato alcune aziende, pubbliche e private. Da queste incongruenze bisognava uscire, oramai era caduto anche il Muro di Berlino e una nuova ventata di innovazione “investiva” l’Europa: stavamo diventando cosmopoliti. E nasce, in quegl’anni, il “Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia”.
Marco Biagi disse: “Sono convinto che il Libro Bianco del Governo sul mercato del lavoro possa davvero costituire un punto di svolta per il diritto del lavoro prossimo venturo”. Tale testo è, dopo anni di miopia nella legislazione sul mercato del lavoro, uno strumento utile, che ha in sé una nuova linfa, una nuova visione non ideologica, in sintonia con gli orientamenti e gli indirizzi comunitari in tema di strategia dell’occupazione. Si legge nella presentazione del Libro Bianco dell’ottobre del 2001: “Questo Libro Bianco è finalizzato a rendere partecipi tutti gli attori istituzionali e sociali delle riflessioni che il Governo ha svolto in vista di un confronto finalizzato a ricercare soluzioni confortate dal più ampio consenso”.
Si sperava, quindi nel maggior consenso possibile tra governo e parti sociali per modernizzare la legislazione del mercato del lavoro italiano e si trattava di introdurre normative volute e già introdotte in Europa, non certamente della volontà di un individuo. Il Libro Bianco, inoltre, suggeriva agli Stati membri di adottare iniziative che favorissero la riorganizzazione degli orari di lavoro, senza però tentare di imporre la riduzione per via legislativa. In sintesi, si voleva adeguamento e miglioramento del quadro normativo di riferimento in materia di politiche del lavoro. Gli strumenti per raggiungere tali obiettivi dovevano essere: la negoziazione di un equilibrio migliore in tema di tutela sociale fra lavoratori permanenti e lavoratori a tempo determinato, in modo che sia le imprese che i lavoratori potessero scegliere il modello di lavoro preferito; l’incoraggiamento della riduzione della settimana lavorativa (utilizzando maggiormente gli impianti, se necessario, e tutelando la competitività).
La globalizzazione aveva minato alla base il modello garantista di tutela del lavoro dipendente, l’idea del lavoro fisso per tutta la vita, che aveva accompagnato generazioni di italiani ed europei, sembrava essere tramontato. Le differenziazioni dell’organizzazione del lavoro sembrano allo scrivente funzionali all’interesse, in primis, dell’impresa e troverebbero la loro ratio economica nella necessità per l’imprenditore di affrontare la globalizzazione dei mercati, e la loro ratio sociale nell’aumentare la domanda di lavoratori, seppur flessibili. A ben vedere, se si pensa che già prima della 276/2003, che introdusse una differenziazione tipologica del contratto di lavoro standard, si lavorava, spesso, senza alcuna protezione, “in nero”, forse si è indotti a ritenere che il cosiddetto lavoro precario non sia poi così male, seppur esso non deve diventare la regola.
“Il contratto di lavoro stabile a tempo pieno e indeterminato non è più la stella polare del diritto del lavoro” []: le normative sul lavoro si indirizzarono, quindi, verso la flessibilizzazione dei rapporti contrattuali, convinti che anche di questo aveva bisogno l’impresa per divenire concorrenziale. Si ebbe “l’introduzione di nuovi e flessibili modelli di impiego di manodopera, per lo più concorrenziali o alternativi al modello tipico; la valorizzazione delle diverse espressioni di lavoro autonomo e professionale” []. La conseguenza della flessibilizzazione del rapporto di lavoro influisce necessariamente sulle dinamiche previdenziali. La flessibilità, di conseguenza, impone allo Stato una riflessione, che si trascina da decenni ormai, sulla necessaria riforma del Welfare- State sull’impronta dei paesi del Nord Europa. L’invecchiamento della popolazione, infatti, non è solo un problema italiano, ma di diversi Paesi europei ed è conseguenza di due elementi: il calo di natività e l’allungamento della speranza di vita.
[1] U. Romagnoli, Il lavoro in Italia, Bologna, 1995, così in A. Perulli, interessi e tecniche , cit. p. 340.
[2] In italia, nell’ultimo decennio, si contano oltre 5 milioni di lavoratori occupati nell’area del lavoro atipico. Vedasi G. Altieri-M. Carrieri (a cura di), Il popolo del 10 %. Il boom del lavoro atipico, Roma, 2000, p. 152 ss.
Il cambiamento di rapporto tra lavoratori attivi e pensionati sembra destinato a invertirsi se non si agisce con politiche lungimiranti. Si rende quindi necessaria, a sommesso avviso dello scrivente, una riforma del Welfare che permetta ai lavoratori atipici di mantenere un quid minimum di reddito nei periodi tra occupazione flessibile e disoccupazione. Questo è quello che l’attuale Governo Monti sembrerebbe voler attuare.
La flessibilità non è e non deve diventare la regola, per evidenti ragioni sociologiche, ma deve continuare a esistere, perché nell’era della globalizzazione sono la flessibilità, l’alta specializzazione a poter permettere all’impresa italiana di essere concorrenziale sui mercati globali. Le politiche sulla concorrenza e quelle del mercato del lavoro devono, ad avviso dello scrivente, evolversi quindi in rapporto simbiotico.