DDL LAVORO/ Articolo 18, il “vaso di Pandora” che ha rovinato la riforma
Il dibattito sulla riforma del lavoro, spiega FIORENZO COLOMBO, sembra essersi troppo concentrato sull’articolo 18 dimenticando aspetti più importanti da affrontare

La storia, in alcune circostanze, sembra non essere maestra e foriera di insegnamenti, in particolare su talune (spinose) materie dell’italica vicenda politica e sociale: ci riferiamo in particolare alle questioni riguardanti le regole del lavoro, da sempre oggetto di particolari passioni e di “spettacoli muscolari”. Purtroppo, e drammaticamente fuor di metafora, le vicende del lavoro e della sua regolazione rappresentano anche un capitolo di vittime del terrorismo e del fanatismo, con persone perbene che hanno perso la vita per aver testimoniato ideali, competenze e dedizione alla causa disinteressata dell’evoluzione normativa, giuridica e sindacale.
In questo senso i toni del dibattito sulla riforma Fornero, avviata nel suo iter al Senato della Repubblica, appaiono eccessivi ed esagerati, quasi come se fossimo all’anno zero, come se non ci fossero state discussioni, dialoghi, punti di caduta, ricerca di convergenze, insomma tutto lo scibile del dinamismo da consultazione.
Parliamo di consultazione ovvero, secondo le convenzioni in uso, una pratica in cui un soggetto chiede pareri e valutazioni, ma poi decide autonomamente sulla base di proprie convenienze (o vincoli); altra cosa sono le pratiche contrattuali, concertative o anche solo semplicemente di dialogo sociale e in questa sede non entriamo nel merito o in giudizi di valore sulle procedure adottate. Ma la storia si è ripetuta nel momento in cui, toccando qualche tema-tabù (articolo 18), le passioni si sono scatenate, si sono visti i muscoli e alla fine si è proceduto con uno schema “perfettibile” ma con un proprio equilibrio interno; si può discutere di elementi particolari (costi sui diversi rapporti di lavoro, tempi, aliquote contributive, obblighi e doveri, ecc.) ma si dovrebbero evitare, come non si sta facendo, toni apocalittici circa i comportamenti delle imprese, degli operatori del mercato del lavoro e delle persone in generale.
Alcune forze politiche, alcuni media e alcuni rappresentanti del mondo dell’imprenditoria parlano di ritorno al passato, di centralismo sovietico, di voler “menare i padroni”; su altri fronti (e la Cgil con gli scioperi ne è una lucida testimonianza) si parla di smantellamento di talune protezioni (altrimenti perché si sciopererebbe?), di agitazioni territoriali che prendono a pretesto le reali crisi aziendali, che si susseguono dal 2008, per fare di tutta un’erba un fascio.
Parlo di storia in quanto inviterei tutti i lettori ad andare a rileggersi i giornali, per chi ha tempo e passione da spendere, tra la fine del 2001 e l’autunno del 2003, in cui dal Libro Bianco si arrivò alla Legge Biagi e ai suoi provvedimenti attuativi: anche lì, a torto, si parlò da una parte di panacea di tutti i mali (viva la flessibilità) e dall’altra di estensione “generalizzata e di massa” della precarietà sociale e lavorativa e, ahimè, sappiamo come abbiamo vissuto in quella stagione. Anche in quel caso si raggiunse un’intesa sofferta e non totalmente condivisa su qualche modifica all’articolo 18 (Patto per l’Italia, maggio2002).
Ma potremmo parlare degli anni ‘80 e ‘90, con i vari referendum promossi da diversi raggruppamenti (Radicali, gruppi della sinistra antagonista), la Legge Treu del 1997, tutte stagioni in cui i toni sono stati esasperati, in cui la lotta politica e sindacale assunse caratteri di guerra “all’arma bianca”, periodi accompagnati con altrettante vittime del terrorismo, persone anch’esse impegnate sul fronte della regolazione del lavoro (dal prof. Tarantelli a Massimo D’Antona). Il Paese invece ha bisogno di essere rasserenato, ha bisogno di comprendere e assimilare i necessari cambiamenti mettendo al centro la crescita e il lavoro; non abbiamo bisogno di toni esasperati su norme che, di fatto, hanno una scarsa incidenza nei processi reali, come le cause da articolo 18!
Infatti, il dibattito vede una nutrita compagine di esponenti politici e professori, giuristi e avvocati, economisti e giornalisti, alcuni capi dei sindacati e intellettuali: pochi consulenti del lavoro, nessun operatore del mercato del lavoro, imprenditori e sindacalisti di base, neanche un direttore del personale interviene su questi argomenti, per la consapevolezza della loro delicatezza, ma anche perché la questione si gioca essenzialmente nella “flessibilità durante il lavoro”, molto meno tra entrate e uscite. E il “durante” è regolato dai comportamenti quotidiani, dalla contrattazione collettiva e individuale, da norme e consuetudini, da modi di fare e da micro innovazioni organizzative.
Nessuna contrapposizione con la realtà, ma solo e semplicemente la necessità di riflettere su un eccesso di legislazione e di regolazione centralistica: petrolchimici e fast food, cantieri edili e officine meccaniche non possono stare insieme, luoghi troppo diversi! E se lasciassimo ai protagonisti dei petrolchimici, dei fast food, dei cantieri edili e delle officine meccaniche qualche spazio in più, non avremmo attivato maggior corresponsabilità e adeguatezza ai tanti lavori e relativi mondi connessi?
Più formiche e meno cicale…
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