Si svolge oggi pomeriggio alle 14:30 a Milano (Auditorium regionale, Piazza Città di Lombardia, Palazzo Lombardia) il convegno “Giovani e lavoro: know how o know why?” che vi proponiamo in streaming. Il tema, come si evince dal titolo, è molto importante e attuale. Come ha di recente precisato l’Istat con una nota ufficiale, non è corretto affermare che “più di un giovane su tre è disoccupato”, mentre sarebbe più corretto segnalare che “più di uno su tre dei giovani attivi è disoccupato”. Per quanto riguarda il dato sulla disoccupazione giovanile relativo al mese di aprile 2012, i disoccupati di età compresa tra i 15 e i 24 anni sono circa 600mila, cioè il 35,2% delle forze di lavoro di quell’età e il 10,3% della popolazione complessiva della stessa età, nella quale rientrano studenti e altre persone considerate inattive secondo gli standard internazionali. Se, dunque, un giovane è studente e non cerca attivamente un lavoro non è considerato tra le forze di lavoro, ma tra gli inattivi.
La differenza è sostanziale e permette di capire le peculiarità della generazione dei rassegnati: in Italia, sono 2,2 milioni i giovani tra i 15 e i 29 anni che non sono iscritti né a scuola, né all’università, né lavorano e nemmeno seguono corsi di formazione o di aggiornamento professionale. Sono questi i cosiddetti Neet (Not in education, employment or training). Sono il 23,4% della popolazione nazionale di riferimento.
Quello che si presenta come il dramma giovanile non è semplicemente la questione dell’occupazione e del lavoro, è invece un enorme problema culturale: la rassegnazione, l’inattività sono espressione di una crisi valoriale. Nel 1948, l’articolo 1 della Costituzione ha affermato in modo condiviso la sacralità del lavoro, che non è rimasta sulla carta, ma che ha di fatto sancito l’alleanza di un popolo, visto che negli anni del secondo dopoguerra il nostro Paese è stato realmente ricostruito. Poi lentamente la nostra economia ha sempre più rallentato, anche perché si è pensato bene di favorire la crescita della burocrazia e del debito pubblico. Lentamente si è assistito al declino di Scuola e Università, la cui specializzazione del sapere pare più a favore dell’offerta (gli insegnanti) che della domanda (gli studenti). Proliferano corsi di laurea per inseguire la specializzazione ma la domanda di lavoro continua a “chiamare” alla vecchia maniera (cit. Benedetta Cosmi, Non siamo figli contro-figure Sovera editore, 2010)
La crisi economica di questi ultimi anni ha fatto semplicemente esplodere il deficit culturale italiano, che si riverbera certo sul mondo del lavoro, ma viene prodotto e coltivato anche altrove, soprattutto a scuola e in famiglia. La difficile transizione tra scuola e lavoro è figlia di questo deficit, ma non certo perché non abbiamo una scuola capace di insegnare un mestiere, quanto piuttosto perché scuola e famiglia sono sempre più in difficoltà nel formare uomini autonomi e responsabili, capaci di sentirsi a casa nel mondo che abitano, e quindi disadattati.
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