Caro Direttore,
Come presidente dell’Associazione Lavoro Over 40 (www.lavoro-over40.it), ho letto con attenzione l’articolo di Alberto Sportoletti pubblicato su queste pagine e mi sento in dovere di rispondere, proprio perché l’argomento trattato è molto ampio, articolato e soggetto a moltissime variabili. La prima annotazione è sulla dichiarazione di mancanza di finanziamenti per le politiche attive. Per la verità, l’unica nota positiva della riforma del lavoro è proprio l’accentuazione degli sforzi sullo sviluppo delle politiche attive. Finalmente i nostri legislatori si rendono conto che una politica attiva del lavoro non può essere fatta solo di incentivi alle aziende o, in qualche caso, al lavoratore, ma sviluppando un’azione sinergica tra istituzioni, sindacato (se si toglierà di dosso la cappa di vetustà che lo avvolge), lavoratore e, soprattutto, stimolando la collaborazione delle aziende e delle loro organizzazioni.
Il secondo punto riguarda l’outplacement. È una bella parola, ma solo una parola. Nei fatti, spesso le società di outplacement fanno ben poco per sviluppare l’ultima parte del percorso: la ricerca delle aziende a cui rivolgere le candidature, lasciando così l’assistito da solo. Forse la colpa non è loro, ma delle aziende, che non sono ancora pronte ad accettare il riassorbimento delle persone “dismesse”, più ancora se in età matura (over 40/50/60), del tutto rifiutate dal mondo del lavoro. Ma più probabilmente la maggioranza delle società di outplacement denota un orientamento al solo business, intervenendo solo nelle prime parti del processo, cioè quelle che richiedono l’intervento specialistico sulla persona (revisione CV, Bilancio delle competenze, counselling, coaching, ecc.), lasciando l’ultima, cioè il trovare un reinserimento – che è la più importante dal punto di vista dell’assistito – alla sola responsabilità dell’assistito stesso.
Non si chiede alle società di outplacement di trovare anche il posto di lavoro, ma di essere più incisive nel sostegno alla persona, mettendo a disposizione una rosa di aziende già selezionate in anticipo e coerenti con le aspettative del candidato. Ma questo scouting purtroppo richiede molta fatica e dispendio di energie economiche e umane. Sono poi da condannare le pratiche che alcune società di outplacement meno serie adottano per proporre il medesimo percorso direttamente al lavoratore con l’obiettivo di farsi pagare da lui, quando invece dovrebbero essere le aziende a pagarle, per legge e per etica. E per far questo adottano la politica dello “spezzatino”, cioè suddividono il percorso di outplacement in tante fasi singole, facendosi remunerare (formalmente) per ogni singola fase, invece che per tutto il percorso. Fatta la legge trovato l’inganno, diceva un vecchio, ma sempre attuale, proverbio.
Ma non voglio addentrarmi oltre, altrimenti ci sarebbe da scrivere un libro intero. Voglio attenermi strettamente all’articolo in questione e alle sue molteplici proposte. Sono assolutamente condivisibili, ma non tengono conto di un fatto molto importante: siamo preparati ad adottare un processo simile a quello indicato, così come fanno i paesi del nord europa e alcuni di cultura anglosassone? Affermo che le indicazioni emerse dall’articolo sono ragionevoli, ma nel contempo utopistiche, se calate nella realtà italiana. Perché?
1 – Nella realtà quotidiana che noi come Associazione tocchiamo contattando i lavoratori maturi (over 40/50/60) espulsi dal mondo del lavoro, ci accorgiamo che essi trovano una barriera insormontabile nel rifiuto delle aziende a prendere in considerazione la competenza professionale che sono in grado di offrire. Non si capisce se ciò accade solo perché sono lavoratori maturi, e quindi potrebbero costare più di un giovane, oppure perché la loro esperienza potrebbe “offuscare” la leadership del futuro responsabile (proprietario oppure direttore o CEO, o AD, ecc.).
2 – I centri di impiego, che dovrebbero essere il fulcro attorno cui ruotano le ricollocazioni, si comportano con la mentalità passiva dei vecchi Uffici di Collocamento. Cioè appena si presenta un lavoratore disoccupato si fanno consegnare il CV, fanno qualche intervista, parvenza del Bilancio di Competenze, e poi accantonano il materiale in attesa che un’azienda poi richieda quella precisa professionalità, senza fare minimi sforzi che possano prendere in considerazione professionalità simili o potenziali. Sorge il dubbio che facciano tutto ciò per giustificare la loro esistenza e poco per aiutare il lavoratore che si presenta a loro. Ancor più se si tratta di un lavoratore maturo (over 40/50/60), perché in questo caso, gli tagliano completamente le gambe dicendogli che la sua età non depone a favore della candidatura. Eppure, esiste una chiarissima normativa (DLGS 216/03) che vieta la discriminazione per età (e non solo). Ho i miei dubbi che la riforma delle politiche attive possa portare risultati se la mentalità rimane questa: dovranno passare molti anni.
3 – I sindacati sono ancora ancorati alla tradizione della difesa a oltranza del posto di lavoro, anche in presenza di un’evidente trasformazione del mondo del lavoro. Per carità, è giusta la loro azione, ma richiede una radicale revisione delle relazioni industriali che al momento rifiutano di considerare. Ultimamente qualcosa si muove, ma è ancora poco.
4 – Nelle esperienze fatte in questi quasi dieci ani di vita dell’associazione, possiamo affermare che il vero nocciolo duro di resistenza è nelle aziende. Soprattutto nelle medie e grandi aziende (semmai ce ne fossero ancora): tengono poco conto della professionalità che i collaboratori attuali (i dipendenti) e potenziali (nuovi assunti) possono esprimere, ma si fermano a indicare caratteristiche, che generalmente si esprimono in discriminazione per età, dimenticando di valutare il vero Capitale Umano (diverso dalla risorsa umana!) che hanno a disposizione. Di fatto attuano spesso una discriminazione per età che è deleteria per la loro funzionalità.
5 – La maggioranza delle Agenzie per il lavoro è consapevole che in futuro la strada della intermediazione (la selezione o il lavoro interinale) offrirà ampie alternative, ma non ha attualmente il coraggio di prendere in mano la situazione e condurre la partita delle assunzioni che gli vengono commissionate. Accade che per convenienza economica “subiscano” le richieste del committente rinunciando al loro vero ruolo di consulenza, cioè l’essere di supporto al committente sull’opportunità di focalizzare l’attenzione su tutti i parametri che definiscono la figura dei candidati.
6 – La maggioranza delle società di outplacement sono la brutta copia delle migliori consorelle americane e nordeuropee. Fanno un buon lavoro all’inizio, ma quando arrivano ad aiutare le persone a ricercare una soluzione lavorativa lasciano solo il loro assistito o lo aiutano parzialmente. Spesso vige la regola dell’arraffare il più possibile dalle doti lavoro o voucher che sono predisposte da diverse istituzioni pubbliche (Regioni, Province e organismi nazionali). A loro discolpa si può dire che la responsabilità è anche delle aziende a cui viene proposta la ricollocazione, che rifiutano spesso di considerare l’uomo nel Capitale Umano che porta.
Ci sarebbe da dire molto di più, ma direi che questi esempi possano far capire come sia perfettamente inutile inventare mille soluzioni se al fondo non viene modificata la cultura di tutte le componenti del mondo del lavoro. Si possono scrivere libri, ma senza la sperimentazione sul campo per verificare la portata delle azioni, rimangono solo parole.
Noi come associazione stiamo tentando faticosamente di seguire questa strada e tutti i giorni incontriamo tantissimi ostacoli che spesso non ci permettono di realizzare quanto è nei nostri desideri. La nostra linea guida è di far rivalutare la ricchezza che possono dare quei lavoratori maturi (over 40/50/60) che vivono la disoccupazione in modo molto preoccupato e senza futuro. Altro che 65.000 o 390.000 esodati, qui parliamo di 1,5 milioni di persone (e quindi famiglie) dimenticate da tutti, considerate zavorra.
(Giuseppe Zaffarano, Presidente dell’Associazione Lavoro Over 40)