«A frenare i giovani è soprattutto il pregiudizio che da cinquant’anni viene largamente diffuso dal contesto culturale italiano che squalifica e svilisce il valore del lavoro manuale, immaginando che questo sia un campo solamente per sconfitti della scuola o per incapaci». Insieme a Giuseppe Bertagna, professore di Pedagogia generale presso l’Università di Bergamo e autore di numerose pubblicazioni sull’argomento come “Lavoro e formazione dei giovani”, commentiamo i risultati dell’indagine promossa da Gi Group che analizza la propensione al lavoro manuale tra i giovani under 30. Sono sempre di più i ragazzi che esprimono un giudizio negativo riguardo gli aspetti manuali del lavoro, spesso influenzato da fattori culturali che portano a una scarsa considerazione di profili professionali che invece sono sempre più richiesti da aziende italiane e internazionali. «Sarebbe stato opportuno far capire esattamente il contrario – spiega Bertagna -, cioè che il lavoro manuale svolto dall’uomo è tale solo se caratterizzato da ingegno, cultura, sensibilità, etica ed estetica. Quella che si è sviluppata è la dimostrazione che il paradigma separativo che ha governato le politiche formative degli ultimi quarant’anni anni è sconfitto dalla storia e dalle vicende economiche. Sta invece affiorando il paradigma contrario, quello integrativo, secondo cui non è possibile studiare senza lavorare e viceversa, anche per la semplice ragione che nell’arco di una vita un giovane cambierà lavoro tantissime volte ed è naturale che la formazione sia continua».
La colpa non è però solo dei giovani. Anche molte aziende, in un’ottica miope e indirizzata solamente al breve termine, spesso evitano di formare e coltivare la nuova generazione di professionisti: «Le aziende, fin dal 1954, sono state abituate a considerare l’apprendistato come un modo per incentivare l’occupazione giovanile e non come un investimento formativo utile a tutte le parti. Se l’obiettivo di un’impresa è solo quello di lucrare qualche sovvenzione statale per aumentare l’occupazione giovanile, allora è ovvio che ci si allontanerà sempre di più dalla vera formazione. E’ necessario capire che non ha nessun significato epistemologico, metodologico e educativo separare formazione interna da quella esterna, eppure oggi si continua a ragionare come se questi fossero due continenti separati. Nonostante tutte le consapevolezze che in questo ultimo periodo stanno affiorando, abbiamo ancora persone, imprese, sindacati e agenzie di formazione che ragionano in termini di formazione interna e formazione esterna alle aziende, incrementando, invece di diminuire, la distanza tra scuola e impresa, tra cultura e manualità, tra intelligenza e produzione».
Dove trovare dunque una soluzione? Il professor Bertagna spiega che è quanto mai necessario «introdurre l’idea che la formazione professionale può convivere con pari dignità insieme all’istruzione tradizionalmente scolastica. Non si può immaginare che queste due realtà rimangano così separate senza possedere continui collegamenti sistematici e che i licei siano migliori degli istituti tecnici e professionali. E’ una logica pericolosa, autolesionistica, che creerà continui problemi invece di risolverli: è dunque fondamentale superare questo impianto ordinamentale che si è consolidato in maniera così evidente e che affonda le proprie radici in una cultura che senza dubbio non fa più parte del mercato e della democrazia di oggi».
(Claudio Perlini)