RIFORMA LAVORO/ Il commercialista: partite Iva e contratti, quanti errori

- Andrea Vittorino Lagravinese

La scorsa settimana sono entrate in vigore le applicazioni e le norme attuative della nuova riforma del lavoro. ANDREA LAGRAVINESE ce ne spiega alcuni limiti

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Le parti sociali, nello specifico gli studi di Consulenza del lavoro e amministrativo/fiscale, stanno vivendo giorni frenetici: la causa è l’entrata in vigore (avvenuta il 18 luglio scorso) delle applicazioni e norme attuative della nuova riforma del lavoro, fortemente voluta dal Ministro Fornero e dal Premier Monti per cercare di risolvere la crisi occupazionale dovuta alla, ormai tragica, crisi economica che attanaglia il nostro Paese e l’Europa tutta. Come sempre, in Italia “fatta la legge, costruito il casino”.

Mi voglio soffermare, in particolare, sul tentativo della “arruffata” Legge 28 giugno 2012 , n. 92, di rendere operativa una presunta ridistribuzione più equa delle tutele dell’impiego, riconducendo nell’alveo di usi propri i margini di flessibilità progressivamente introdotti negli ultimi vent’anni; insomma, si vuole ridimensionare o addirittura cancellare quello che era il progetto Biagi (Libro Bianco) e cioè l’autonomia del lavoratore nella realizzazione delle proprie mansioni, stemperare i rigidi vincoli di subordinazione gerarchica e funzionale.

Per Biagi il lavoro subordinato standard non era nella fattispecie un riferimento assoluto: si dovevano regolamentare nuove forme e tipologie di lavoro a forte contenuto auto-imprenditoriale. Questi standard lavorativi introdotti o regolamentati dalla Legge Biagi (lavoratori a partita Iva, collaborazioni a progetto e varie forme di lavoro cosiddetto accessorio) sono considerati, nella nuova “riforma Fornero” una tipologia poco usata, nella quale si può nascondere del lavoro subordinato “camuffato”.

Ma entriamo nello specifico della legge. Per quanto riguarda le collaborazioni a progetto, le nuove norme riducono notevolmente e quasi distruggono questa tipologia occupazionale con tre presupposti: 1) il progetto deve essere funzionalmente collegato a un determinato risultato finale e non può consistere in una mera riproposizione dell’oggetto sociale del committente; 2) il progetto non può comportare lo svolgimento di compiti meramente esecutivi o ripetitivi, che possono essere individuati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale; 3) tra gli elementi essenziali, da indicare in forma scritta, deve esserci anche “il risultato finale che si intende conseguire” attraverso il contratto di lavoro a progetto.

Come si può notare, sono ben poche o quasi nulle e contraddittorie le possibilità di applicazione, perché essenzialmente vengono ridotte le attività alla quali si può ricorrere al contratto a progetto che non devono essere analoghe a quelle svolte in azienda da lavoratori dipendenti.

Per quanto concerne i lavoratori a partita Iva, sono almeno due i casi per cui questa forma di professione non debba essere trasformata in contratto subordinato e cioè: che la durata della collaborazione sia superiore a otto mesi nell’arco di un anno solare; che il ricavo dei corrispettivi percepiti dal collaboratore nell’arco dello stesso anno solare superi la misura dell’80% dei corrispettivi complessivamente percepiti dal collaboratore nell’arco dello stesso anno solare; che il prestatore abbia la disponibilità di una postazione fissa di lavoro presso il committente. In più è obbligatorio che la prestazione lavorativa debba essere connotata da competenze teoriche di grado elevato acquisite attraverso rilevanti esperienze maturate nell’esercizio concreto di attività, e che la stessa, sia svolta da soggetto titolare di un reddito annuo da lavoro autonomo non inferiore a 14.930,00 euro per il 2012, che si traduce in 18.663 come valore dei ricavi minimi.

È indubbio che, oltre alla equivocità delle norme appena citate, questa forma di lavoro, usata soprattutto dai giovani che non hanno accesso al lavoro dipendente, non sia utilizzabile, né percorribile.

Ma il tipo di modifiche attuate con la legge in vigore in questi giorni, che più mi preme sottolineare, poiché riguardano norme fiscali da me “frequentate”, sono quelle concernenti il lavoro accessorio o per meglio dire le prestazioni di lavoro autonomo occasionali. Con la precedente legislatura i prestatori potevano svolgere attività di lavoro occasionale fino a un limite economico di 5.000 euro netti (6.660,00 euro lordi) nel corso di un anno solare per committente, adesso con la nuova riforma ci si riferisce alla totalità dei committenti e comunque le attività svolte a favore di ciascun committente non possono superare i 2.000 euro annui.

Si tratta di un valore così basso da non invogliare il ricorso all’istituto. Questa forma di lavoro veniva usata soprattutto dai cosiddetti “disoccupati cronici”, dai giovani che non riuscivano a entrare nel mondo del lavoro in qualsiasi forma contrattuale e comunque da coloro che arrotondavano qualche misero stipendio o pensione non avendo una “dote professionale” di alto livello: fra l’altro questi compensi erano ben tassati e quando si dovevano pagare imposte in eccedenza rilevate dai 730 o dagli Unici, erano “pianti amari”.

Insomma, queste forme di “impiego surrogato” non erano il massimo, ma almeno davano la possibilità ai giovani di aprire qualche porta al mondo del lavoro, sperando poi nel futuro in una stabilità occupazionale, e agli altri (quelli che non possono avere un lavoro dipendente) di potersi arrabattare per portare a casa la cosiddetta “pagnotta”. Non mi sembra che gli sforzi del governo Monti, inerenti al reperire nuovi posti di lavoro, possano trovare successo sia nel momento attuale che per il futuro con queste leggi, e l’annientare totalmente quello che si era fatto in passato, senza proporre nuove soluzioni veramente adeguate, non fa che peggiorare ulteriormente la disastrosa situazione economico-strutturale del nostro Paese: è vero i tempi sono cambiati dalla riforma Biagi, ma almeno in essa c’era un seppur minimo tentativo di porre la persona, il lavoratore al centro della questione lavoro; adesso si pensa solo ad assolutizzare i problemi e a non dare alternative concrete ed efficienti al disastrato tessuto sociale italiano.

In conclusione ormai sembra vigere fra i nostri governanti uno slogan pubblicitario di alcuni anni fa: “O così… o Pomì”.

 

(Andrea Lagravinese, Commercialista)





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