Le cifre diffuse dall’Istat dicono di numeri drammatici: negli ultimi cinque anni la disoccupazione giovanile, quella compresa nella fascia che va dai 15 ai 34 anni, ha toccato vertici mai così alti dal 1999. Negli ultimi cinque anni in particolare si sono persi un milione e mezzo di posti di lavoro “under 34”. In pratica si è scesi da 7 milioni 333mila a 5 milioni 876mila posti di lavoro, una perdita pari al 19,9%. Cifre che devono far riflettere alla luce di un autunno che lo stesso ministero per lo Sviluppo ha definito “il più caldo degli ultimi vent’anni”. Secondo Maurizio Del Conte, contattato da Ilsussidiario.net, docente di Diritto del lavoro alla Bocconi, “la perdita progressiva dei posti di lavoro dei giovani non è un fenomeno recentissimo. Negli ultimi anni e in particolare nell’ultimo questa perdita di posti di lavoro si è però accentuata”. Secondo Del Conte il Governo negli ultimi mesi ha commesso alcuni errori, frutto di una politica miope che bada ai risultati immediati e non a una visione di ampio respiro per il futuro anche dell’occupazione.
Professore, i dati diffusi parlano di una perdita mai così alta dal 1999. Sono dati che la crisi che stiamo attraversando ha accentuato?
Come sempre nelle rilevazioni statistiche conta molto il punto di partenza, dove cioè si comincia a osservare. L’arco di tempo esaminato è piuttosto lungo, la perdita progressiva dei posti di lavoro dei giovani non è un fenomeno recentissimo.
Quanto ha però inciso l’ultimo periodo?
Molto. Dobbiamo infatti rilevare come questa perdita di posti dei giovani si sia accentuata negli ultimi due, tre anni e in particolare nell’ultimo anno. C’è stata cioè una crescita esponenziale dell’incisione della crisi sui giovani. Questo è il fenomeno veramente più preoccupante della crisi in questo momento.
Perché la crisi attacca soprattuto i giovani? Il ministro Fornero ha intenzione di rivedere i contratti a termine, ma le imprese non sono d’accordo.
Il problema è che bisognerebbe avere le idee più chiare su quello che si vuole realizzare. La sensazione è che proprio sui lavori a termine, i lavori cosiddetti flessibili, il Governo abbia negli ultimi mesi manifestato indirizzi un po’ contradditori.
In che senso?
Da un lato si è pensato di incidere, con la riforma del mercato del lavoro, con la stabilizzazione. Ma la stabilizzazione forzata non produce nessun effetto. Pensare di stabilizzare i posti per legge è una pura utopia. La stabilizzazione si ottiene se si rinforzano le imprese e quindi se l’impresa ha poi bisogno di posti di lavoro stabili. Aver considerato il contratto a termine sempre e comunque un brutto contratto, secondo me è stato un errore.
Perché?
Perché è un errore di visione del problema. Il contratto di questo tipo serve alle imprese e serve anche al lavoratore per avviarsi a un percorso che poi può diventare stabile. E’ sbagliato pensare di buttare via lo strumento, lo strumento è parte di un percorso. In questo senso penalizzare le forme contrattuali come quelle a tempo determinato non è stata lungimirante.
In che modo allora rimediare a questa visione?
Credo che in questa fase che si sta aprendo di nuovo confronto con i sindacati ci sarà un po’ più di realismo, e spero che anche il Governo capisca come sia necessario un sapiente uso di tutti gli strumenti, anche quelli flessibili. Il problema vero sono gli abusi: reprimere il cattivo uso dello strumento, ma non eliminare lo strumento in sé.
Confindustria chiede al Governo maggiore impegno per la produttività e quindi per l’occupazione. Tra le altre cose si parla di eliminazione del cuneo fiscale per le imprese che coinvolgono i lavoratori.
Anche qui sottolineo il fatto che questo Governo ha preso purtroppo nei mesi scorsi una decisione proprio sbagliata.
Quale?
Quella che ha in sostanza ridotto la contribuzione per i salari di produttività. In qualche modo, presi da una furia di tagli ai costi orizzontali, si è pensato di tagliare anche qui. Questo secondo me è stato un errore sotto tutti i profili, non solo perché questo reprime la capacità delle imprese di aumentare la produttività che è il vero problema e quindi di incidere negativamente su occupazione e redditi, ma anche perché alla lunga incide sulle tasse dell’erario.
Si spieghi, professore.
Se si sgravano gli aumenti di produttività noi alla fine avremo anche un aumento del gettito contributivo. Questo è un risultato che richiede un po’ di tempo, ma d’altro canto non si può pensare di fare una politica che incida nel giro di tre mesi, con l’ossessione di avere i conti sotto controllo ogni tre mesi. Bisogna fare una politica meno miope più indirizzata al futuro, fare qualche sacrifico oggi ma nella prospettiva di aumentare produttività e gettito contributivo. E’ necessario oggi investire soldi, è necessario che lo Stato sposti delle risorse verso il lavoro attraverso delle significative riduzioni del cuneo fiscale.
Dunque la riduzione del cuneo fiscale può essere una strada giusta?
Sì, ma che siano riduzioni non indiscriminate, ma indirizzate innanzitutto al mercato dei giovani. E che poi siano rivolte all’incremento di produttività. Gli studi fatti in questo senso sono abbastanza univoci nel vedere in uno o due anni un aumento del gettito fiscale oggettivo sei si procede in questo modo, quindi una manovra che si paga da sé.