La Sfinge di Detroit ha colpito ancora. Nel suo discorso di Torino, rivolto a 6.000 dipendenti Fiat convocati al Lingotto dall’oggi al domani, l’amministratore delegato del gruppo Fiat-Chrysler Sergio Marchionne ha voluto lanciare tre messaggi, anzi tre guanti di sfida: il primo, rivolto alle persone in platea, per ricompattarle attorno alla sua linea, disintermediando le interpretazioni che tutti i media hanno dato negli ultimi, convulsi dieci giorni, alle sue esternazioni a raffica e spiegando loro, direttamente, che la Fiat è sana e lui non intende mollarla, né andarsene dall’Italia; il secondo, all’opinione pubblica in genere e in particolare a i suoi ormai numerosi detrattori, per dirgli che si pentiranno amaramente della sfiducia e del dileggio, perché lui è lì per restare e non si farà intimidire; il terzo è al governo Monti, ma al di là di esso all’Europa, per chiedere una profonda revisione della politica economica verso il settore automobilistico.
È stato, inutile negarlo, il discorso più logico e consequenziale che Marchionne abbia tenuto finora, negli ultimi mesi di attività, retrodatabili più o meno all’intervista-fiume rilasciata al Corriere per minacciare la chiusura di uno o due stabilimenti produttivi in Italia se l’Europa non avesse trovato dei modi condivisi per ridurre la sovraccapacità produttiva del settore. Altro che “Fabbrica Italia”, dunque – era stato allora il commento unanime.
Tutti erano ritornati con la memoria a quel discorso di due anni prima, la primavera del 2010, nel quale Marchionne aveva addirittura promesso (pardon, solo ipotizzato, a sentire oggi lui) l’investimento di ben 20 miliardi di euro nel nostro Paese in nuovi modelli, nuovi impianti, ecc. Uno scenario delineato a crisi economica ancora in embrione, quando cioè la tempesta perfetta sul debito sovrano dell’Italia e degli altri paesi europei a rischio era ben lungi dall’essersi delineata e quando nessun economista avrebbe scommesso su un crollo dei consumi e del potere d’acquisto degli europei di simile entità.
Ma mentre la crisi si profilava e poi si accentuava mese dopo mese, Marchionne, senza mai parlare apertamente della necessità di rivedere quel piano, da un lato iniziava una chiara politica di investimenti all’estero, in particolare nei paesi che ancora possono erogare sussidi alle nuove installazioni produttive, come la Serbia e il Brasile; dall’altra intrecciava la lama prima contro tutti i sindacati italiani, e poi alla fine contro la sola Fiom-Cgil, e contro la sua stessa “casa madre”, la Confindustria, per poi arrivare a una decisione e a un risultato storici: due accordi contrattuali separati per gli stabilimenti di Mirafiori e Pomigliano, contestati dalla Fiom ma approvati a maggioranza dal referendum dei lavoratori, e l’uscita di Fiat dalla Confindustria per dissociare l’azienda dall’adesione implicita ai vincoli dei contratti nazionali di lavoro firmati appunto dalla confederazione che vincolerebbero, secondo una tesi giuridica alquanto azzardata, solo le imprese aderenti alla medesima confederazione.
Tutto questo sconquasso sindacal-contrattuale, Marchionne l’ha fortemente voluto per porre gli stabilimenti italiani nelle condizioni di produttività necessarie a competere, a sentir lui: ma non per questo ne ha riscattato le sorti.
Cos’è successo, nel frattempo, ai conti del gruppo Fiat? Sul piano finanziario, tutto strabene: tanto che il 2012 si profila come l’anno migliore dal punto di vista dei risultati economici. E sul piano industriale? Tutto ottimamente per il mondo non-auto, racchiuso nel gruppo Fiat Industrial. Tutto pessimamente per la produzione automobilistica dei marchi Fiat, Alfa Romeo e Lancia (la Ferrari e la Maserati si sono salvate), nell’insieme crollati in Europa di quota di mercato più dei concorrenti storici, che grazie ai loro modelli più nuovi hanno strappato posizioni ai torinesi. Il tutto, in base allo strano teorema – escogitato quando la Fiat in realtà non avrebbe avuto soldi per investire, neanche se avesse voluto – secondo cui quando il mercato scende non si devono lanciare nuovi prodotti. Forse è anche vero, ma se la concorrenza li lancia, si porta via i clienti: e di fatto le vendite di auto dei marchi Fiat in Europa sono scese del 16,6%, peggio di tutti i marchi concorrenti (anche se tra essi solo la Volkswagen è cresciuta, peraltro di appena lo 0,57%), e in Italia del 20,2%, superate nel crollo solo dai marchi Gm e Ford.
Ma cosa dice, ora, Marchionne, ai suoi dipendenti, ai sindacati, al governo e addirittura all’Europa?
Dice una cosa assolutamente logica in sé, se non fosse anche il contrario di quel che ha detto o almeno lasciato capire negli ultimi due anni: dice, cioè, che il futuro dell’Italia è produrre auto da esportare, il che potrebbe essere anche vero – c’è da augurarselo – ma contraddice la sua teoria secondo cui in Italia non ci sono le condizioni competitive per produrre. Marchionne sostiene anche, però, che la Fiat da sola non può riuscire in questo miracolo, che pure promette di sforzarsi di compiere, se non sarà aiutata dal governo italiano nella creazione di condizioni di maggior competitività (?) e dall’Europa nella determinazione di una nuova politica economica che freni la concorrenza sleale dei produttori orientali e rimetta ordine anche sul mercato del Vecchio Continente, dove, secondo Marchionne, anche la Volkswagen avrebbe fatto “dumping”, cioè vendite sottocosto, proprio per scippare clienti.
Ora è chiarissimo che, anche se Marchionne avesse ragione, pone due condizioni irraggiungibili all’attuazione delle sue promesse, cioè dei futuri investimenti su questa Fiat “formato esportazione”: una condizione irraggiungibile la pone al governo Monti, a sei mesi dalla scadenza e con ben altre priorità in agenda che gli interventi “di fino” pro-auto chiesti dal manager; e un’altra condizione irreale la pone all’Europa, dove nessuna autorità, neanche Barroso in persona, ha oggi la forza politica per aprire un nuovo fronte di scontro con la Germania, dalla cui accondiscendenza già tutti gli altri Stati membri dipendono affinché il Fondo salva-Stati ci difenda dalla speculazione internazionale sui titoli pubblici.
Per essere brutalmente chiari, è come se Marchionne avesse detto: “Credo nell’Italia e investirò in Italia, a patto che alla Merkel spuntino le ali e si metta a volare e che a Monti spuntino le branchie e inizi a nuotare sott’acqua”. Un discorso del genere, su questi toni estremizzati, non è da manager: è da politico. E di fatti, quello di Marchionne è stato, al Lingotto, un discorso denso di spunti emotivi, di orgoglio indomabile, di affettività forse perfino sincera verso l’azienda e chi ci lavora e anche, come sempre, un’apertura di tavolo da politico, anzi da consumato giocatore di poker: scordiamoci il passato, quel che è detto è detto, la Fiat quest’anno, anche con l’Italia in ginocchio, guadagnerà più soldi che mai, io sono qui e qui resto, sono pronto a investire ma prima voialtri – governo, Europa, mondo – dovete far qualcosa per me.
Alla fine ha citato Einstein. Ma verrebbe da citare Kennedy: “Non chiedete cosa il vostro Paese può fare per voi: chiedete cosa voi potete fare per il vostro Paese”. E appunto: il Paese di Marchionne non è l’Italia.