Addirittura un’«enorme tragedia che ci sta schiacciando». Così il presidente dell’Eurogruppo, Jean-Claude Juncker, ha definito la disoccupazione che sta affliggendo l’Europa, il cui tasso è ormai giunto all’11%. La soluzione? «Bisogna ritrovare la dimensione sociale dell’unione economica e monetaria, con misure come il salario minimo in tutti i Paesi della zona euro». Abbiamo chiesto a Maurizio Del Conte, professore di Diritto del lavoro presso la Bocconi di Milano cosa ne pensa.
La disoccupazione italiana, che sul fronte giovanile ha raggiunto il 37%, è quindi un problema di natura europea?
In realtà, i dati Eurostat – depurati del Paese messo peggio, la Grecia – ci dicono che la disoccupazione in Italia, prima della crisi, era tutto sommato migliore di quella dei Paesi più virtuosi; negli ultimi anni, tuttavia, c’è stato un netto peggioramento al punto che, attualmente, ci collochiamo nelle posizioni più basse. All’interno del problema europeo, quindi, dettato prevalentemente dalla crisi, il nostro è più grave. Siamo caratterizzati da un trend negativo che, potenzialmente, resterà tale anche nella prospettiva di ripresa economica.
Quali sono le anomalie del nostro sistema?
Uno dei problemi di cui ha risentito il nostro mercato del lavoro è stato il susseguirsi di riforme non collegate le une con le altre, nel tentativo di aggiustare – più che di cambiare profondamente – le regole. Come se non bastasse, di recente la riforma delle pensioni ha aumentato l’età pensionabile, generando un “tappo” in uscita che si ripercuote pesantemente sui giovani, provocando un effetto di mancato turnover e, in termini assoluti, un decremento della quota di occupati. Il fatto che decresca il numero di occupati spaventa forse ancora più dei numeri sulla disoccupazione. A tutto ciò, si aggiunge il gap tra il mondo della formazione e quello del lavoro.
A cosa si riferisce?
C’è un problema, anzitutto, a livello di orientamento scolastico, quella fase in cui il giovane deve scegliere se e quale università frequentare, o se proseguire con un percorso di formazione tenico-professionale. In Italia, le potenzialità e i talenti dei ragazzi non vengono convogliate, a differenza degli altri paesi europei, in un adeguato percorso formativo. Sostanzialmente, lo studente viene lasciato a se stesso e ai suoi genitori. Non esistono strumenti che profilino le sue capacità e le sue attitudini. Una volta terminati gli studi, inoltre, sono assenti quegli organismi in grado fungere da raccordo con il mondo del lavoro.
Non ci sono le agenzie per l’impiego?
Vede, negli anni ’90 l’Italia fu condannata dalla Corte di giustizia europea perché gli uffici pubblici di collocamento si erano rivelati del tutto inefficaci nel fare incontrare domanda e offerta di lavoro. In seguito, si decise di aprire il mercato agli operatori privati. Lo Stato, tuttavia, si è riservato di preservare gli uffici pubblici, destinandovi immani risorse, a fronte di risultati decisamente trascurabili. Risorse che si sarebbero potute usare proficuamente in altri ambiti. La riforma Fornero ancora non ha rimosso l’ambiguità che investe i ruoli e le competenze di pubblico e privato. Si tratta, indubbiamente, di una priorità del prossimo governo.
In un tale contesto, che significato assume la proposta del salario minimo garantito?
Francamente, mi sfugge il nesso di causalità. Il salario minimo garantito non è lo strumento in grado di combattere la disoccupazione ma, casomai, riguarda chi un lavoro già ce l’ha – di cui si occupa la contrattazione collettiva; al limite può rappresentare la tutela della povertà del disoccupato.
Quindi, come si combatte la disoccupazione?
Attraverso un mercato del lavoro efficiente e, soprattutto, un sistema produttivo funzionante. In tal senso, non vedo prospettive. Nulla, attualmente, indica la possibilità di una svolta rispetto alla nostra politica industriale. Manca un’idea complessiva. Ad esempio, non si è ancora stabilito se il Paese dovrà continuare a investire sul manifatturiero oppure no; sappiamo, per esempio, che è impensabile continuare a seguire i nostri competitori sul fronte della quantità e dei prezzi.
Come valuta,invece, la proposta di Berlusconi di non far pagare le tasse su tutti i nuovi assunti a tempo indeterminato?
In tempo di elezioni, è sicuramente, un argomento che attira. Sta di fatto che per le nuove assunzioni è necessario introdurre una riduzione drastica della tassazione. Pari a zero è pressoché impossibile. Ma un’aliquota al 10% produrrebbe un effetto positivo in termini di raccolta contributiva per l’emersione dal nero.
(Paolo Nessi)