Di mese in mese, è sempre un nuovo record, pure questa volta. Eppure, ai dati dell’Istat sulla disoccupazione, proprio non si riesce a farci il callo. A dicembre, il tasso si attestava all’11,2%, in aumento dello 0,1% rispetto al mese precedente e dell’1,8% rispetto a dicembre 2011. Dicono che sia il picco più alto mai raggiunto dal 1999. Ovvero, dall’inizio delle serie storiche trimestrali. Decisamente più allarmanti le percentuali sulla disoccupazione giovanile, che a dicembre 2012 viaggiava al 36,6%, in calo di 0,2 punti percentuali rispetto al mese precedente e in aumento di 4,9 punti rispetto all’anno scorso. Abbiamo chiesto a Michele Tiraboschi, Direttore del Centro Studi Internazionali e Comparati Marco Biagi dell’Università di Modena e Reggio Emilia, quali soluzioni si possono prospettare.
Da cosa dipende l’entità della disoccupazione?
Prevalentemente dalla crisi. Le imprese vedono i propri ordinativi ridotti e sono costrette a perdere dei preziosi collaboratori.
E quella giovanile?
Quando le aziende fanno fatica, normalmente non assumono i gruppi ritenuti meno appetibili. Nel nostro Paese sono ritenuti tali i giovani. Cosa che non avviene altrove. Un giovane motivato, pieno di energie, dovrebbe essere considerato una risorsa più desiderabile, come in Germania, Svezia o Danimarca, dove la disoccupazione giovanile è allo stesso livello di quella adulta. In molti altri paesi europei, oltretutto, la retribuzione non raggiunge il livello più elevato a fine carriera.
Quando, allora?
Circa a metà, quando il lavoratore è nel pieno delle sue forze e al massimo della sua produttività. In Italia, invece, c’è una norma di legge non derogabile, contenuta nello Statuto dei lavoratori, tale per cui ai dipendenti non può essere ridotto il trattamento retributivo. Un controsenso se si considera che l’intensità, le risorse e le capacità di una persona nel pieno della sua maturità lavorativa sono decisamente superiori a quelle di cui potrà disporre quando sarà in avanti con gli anni. Un bel problema se si considera che con la riforma Fornero l’età pensionabile è stata procrastinata di parecchi anni.
Tutto questo nuoce anche alla produttività?
Indubbiamente. Sulla bassa produttività incide anche il fatto che disponiamo di giovani poco qualificati e che entrano tardi nel mondo del lavoro non solo perché è difficile trovare un’occupazione, ma perché sono parcheggiati a lungo in percorsi formativi separati dal mercato. In Germania, invece, circa due milioni di giovani, attraverso gli apprendistati, entrano nel mondo del lavoro attorno ai 15 anni, pur rimanendo all’interno del percorso educativo-formativo.
In ogni caso, la disoccupazione giovanile, a dicembre, è diminuita rispetto al mese precedente dello 0,2% circa.
E’ un dato quantitativamente e qualitativamente del tutto irrilevante. Temo, oltretutto, che si tratti di giovani scoraggiati che, semplicemente, hanno smesso di cercare.
Quali sono le sfide principali da cui il prossimo governo non potrà prescindere.
Per i giovani, occorre meno Stato e più sussidiarietà. Un principio che, in concreto, si traduce con l’abolizione del valore legale del titolo di studio, la grande “cappa” che blocca il merito, l’innovazione, il lavoro e il cambiamento. Se tale impedimento venisse meno, le università e le scuole sarebbero costrette ad attuare percorsi formativi reali, volti all’entrata nel mercato del lavoro, pena la perdita di iscritti.
E per quanto riguarda gli adulti?
Dobbiamo spostare il quadro regolatorio dal centro alla periferia, dalla legge alla contrattazione collettiva, dallo Stato agli enti bilaterali, e sostenere la contrattazione collettiva aziendale di produttività di secondo livello. La Germania va benissimo anche perché ha attivato, negli ultimi anni, degli accordi aziendali territoriali decisivi per creare dei contesti che mettano l’azienda nelle condizioni di fare il proprio lavoro e il sindacato di effettuare un’azione di controllo. Non dimentichiamo che, in Germania, il sindacato assume forme cooperative e partecipative mentre, da noi, la contrapposizione ideologica e i conflitti sono ancora alti. Altra questione da affrontare è quella delle Agenzie per lavoro.
Ci spieghi meglio.
Spesso un lavoratore si trova licenziato a 50 anni, pur avendo ancora competenze che potrebbero consentirgli facilmente di essere ricollocato, ma non essendo in grado di trovarsi da solo l’azienda che ha bisogno di lui; oppure, si trova disoccupato proprio perché manca di competenze adeguate. In entrambi i casi, il potenziamento delle Agenzie potrebbero svolgere un ruolo decisivo. Aiutandolo a reinserirsi o facendosi carico della sua formazione.
Secondo lei, sarà necessario intervenire sulla riforma Fornero?
La nuova disciplina è concettualmente sbagliata. Si è pensato, con il dirigismo, di creare lavoro e produttività. Invece, imprese e lavoratori sono state imbrigliate in una serie di norme rigide e complicate. Oggi è molto più difficile sia licenziare che assumere con contratti a termine. Quindi, va semplicemente, abrogata. Al limite, salvaguardando la parte sugli ammortizzatori. Non dimentichiamo che nel titolo della riforma è presente la dicitura “in una prospettiva di crescita”. Finora, ha fatto crescere solo la disoccupazione. E, se una legge non funziona, va cambiata.
(Paolo Nessi)