L’Italia non se la passa certo bene: crescono le famiglie in difficoltà economica, diminuisce il Pil e aumentano le chiusure delle aziende e le relative perdite di posti di lavoro. E a questo proposito un sondaggio SWG, condotto su un campione di 1500 persone maggiorenni, fa emergere una forte preoccupazione degli italiani. Alla domanda: “Quanta paura ha che lei o qualcuno della sua famiglia possa perdere il lavoro?” la somme delle risposte “abbastanza” e “molta” ha raggiunto il 68%. Una percentuale di gran lunga superiore a quella del 2007, quando la paura degli italiani aveva appena sfiorato il 37%. «È l’effetto della crisi», ammette Domenico Carrieri, professore di Sociologia del lavoro presso l’Università di Teramo, raggiunto da ilsussidiario.net.
Professore, in Italia sembra che stia crescendo la paura di perdere il posto di lavoro. Come commenta questo dato?
Il dato è clamoroso, però non è del tutto sorprendente, perché abbiamo informazioni che indicano come per gli italiani la perdita del lavoro sia uno dei problemi principali. Si tratta anche di una delle priorità dell’agenda politica elettorale, anche se non so quanto venga rispettata dalle formazioni politiche. Credo che vadano, però, sottolineati due aspetti.
Quali?
Il primo è che questa insicurezza collettiva, molto forte rispetto ad altri paesi, sia da attribuirsi non solo a minacce concrete, ma anche e soprattutto all’incertezza di alternative, alla mancanza di politiche attive per l’impiego e di meccanismi universali di protezione in caso di perdita dell’occupazione. Le preoccupazioni forse sono troppo alte rispetto alla realtà concreta di perdere il posto, ma sono fortemente alimentate dalla carenza, dal deficit, dall’esigenza di politiche specifiche a ciò dedicate.
Il secondo aspetto qual è?
Riguarda i risvolti occupazionali: fino a qualche tempo fa si pensava che si potesse uscire dalla crisi, mentre questo dato pare sottolineare, invece, che nell’immaginario collettivo non solo questa crisi è profonda e pesante, ma senza vie d’uscita.
Perché gli italiani, secondo lei, hanno così paura? Nel passato ci sono stati altri momenti difficili come questo…
Questa è la crisi più acuta dal punto di vista occupazionale degli ultimi 70 anni, un’altra situazione di grande difficoltà economica c’è stata alla fine della Seconda guerra mondiale, come conseguenza dell’evento bellico. Oggi è diverso, non si vedono non solo a livello italiano, ma anche in ambito internazionale, terapie efficaci. Anche altri paesi hanno problemi occupazionali significativi, ma in Italia si sommano varie crisi: quella occupazionale, quella economica e quella della produttività e quindi questo comporta un peggioramento dei dati e delle aspettative.
Quali differenze ci sono rispetto ad altri paesi?
Su questo fronte, se in America le gerarchie producono qualche risultato anche se non risolutivo, in Europa, dove dominano le politiche di rigore, del pareggio di bilancio, è normale che i cittadini siano spaventati, non percependo un’alternativa politica vera e concreta sul piano della creazione di impiego.
Secondo lei, il modo di vivere la crisi da parte degli italiani è cambiato?
Credo che siamo in una fase di cambiamento dei comportamenti collettivi e anche delle visioni comuni, perché una crisi come quella attuale che dura così a lungo determina senz’altro, oltre che una diminuzione dei redditi e delle opportunità, anche un riposizionamento dei valori e delle priorità e il modo di leggere le situazioni.
Quali sono gli indizi per leggere questa situazione?
C’è una diminuzione dei consumi e una minore propensione alla crescita. Stiamo percorrendo una strada che richiederebbe maggior approfondimento da parte di noi sociologi. Siamo di fronte a una ridefinizione delle stesse categorie, di problemi di adattamento da parte dei cittadini. Siamo davanti a stili di vita che cambiano, a diversi approcci alla crisi.
La ricetta per ridare fiducia agli italiani?
Ce ne sono diverse in giro, anche in altri paesi europei. Si tratta di introdurre piani, anche straordinari, per l’occupazione giovanile, coinvolgendo anche gli attori pubblici e privati a livello locale. Si tratta di incentivare l’occupazione a tempo indeterminato oltre ad agevolazioni fiscali, così come avvenuto in passato con il credito d’imposta, perché gli strumenti economici per gestire il quadro dentro politiche europee ci sono, ma ci vuole una classe dirigente politica molto capace per rispondere alle aspettative della collettività. Invece, ci troviamo di fronte a molti interrogativi. In questo momento è difficile essere fiduciosi.
(Elena Pescucci)