Nuovo record negativo per la disoccupazione nell’eurozona, che nel mese di febbraio si attesta al 12% per la prima volta dalla nascita della moneta unica. A rilevarlo è Eurostat, secondo cui il numero di disoccupati, considerando tutti i Paesi Ue, supera addirittura quota 26 milioni. I dati dell’ufficio statistico europeo mostrano inoltre su base mensile un incremento di 76 mila unità per il complesso dell’Unione e di 33 mila per l’area della moneta unica, mentre rispetto a febbraio 2012 il balzo è stato rispettivamente di 1,805 milioni e 1,775 milioni di unità. Nei singoli Stati membri i livelli di disoccupazione più bassi sono stati registrati in Austria (4,8%), Germania (5,4%), Lussemburgo (5,5%) e Olanda (6,2%), mentre i tassi più alti si sono visti in Grecia (26,4% a dicembre 2012), Spagna (26,3%) e Portogallo (17,5%). Abbiamo commentato questi dati con Michele Tiraboschi, direttore del Centro Studi Internazionali e Comparati Marco Biagi.
Come giudica quanto emerge dalla rilevazione Eurostat?
La disoccupazione è certamente in crescita, non solo in Italia ma in tutta Europa. Anzi, il tasso nel nostro Paese risulta addirittura al di sotto della media europea, però non dobbiamo dimenticare che quello della disoccupazione, pur essendo un indicatore certamente importante, emblematico e forse uno dei più immediati, capace quindi di farci capire quante persone sono alla ricerca di un lavoro, non è l’unico aspetto da considerare.
Quale altro fattore dovremmo considerare?
Per comprendere soprattutto il caso italiano nel contesto internazionale comparato, bisognerebbe sempre tener conto del tasso di occupazione, riguardante quindi non le persone che stanno cercando lavoro, ma tutte quelle che, in unità di lavoro, possiedono effettivamente un’occupazione regolare.
L’Italia come esce invece da questa stima?
In questo caso l’Italia dimostra grandissime difficoltà nel confronto internazionale. Su 60 milioni di italiani e 40 milioni di persone che lavorano, meno di 23 milioni possiedono un’occupazione regolare, mentre a dilagare sono il lavoro sommerso, gli effetti di scoraggiamento e l’inattività, soprattutto tra i giovani.
Quanto è peggiorato nel tempo il dato europeo?
Periodicamente leggiamo e commentiamo quello che ormai è un vero e proprio bollettino di guerra dell’Eurostat sulla disoccupazione, ma in realtà si tratta di un fenomeno costante negli anni. Basti pensare che, prima della riforma Treu e poi di quella Biagi, la disoccupazione giovanile era grosso modo sui livelli su cui siamo oggi. Il problema, quindi, è capire come si può creare occupazione in un contesto di scarsa crescita, di crisi cicliche e di mercati emergenti che sottraggono attività e lavori alle nostre imprese.
Come uscire da una tale situazione?
A livello europeo occorre chiaramente riflettere sulle politiche di austerità, su un rigore eccessivo che in una stagione di crisi globale ha finito con il deprimere maggiormente proprio l’Europa. E’ infatti indubbio che il Vecchio Continente abbia subìto maggiormente la filosofia, dettata dalle istituzioni centrali europee, di ridurre a tutti i costi l’intervento pubblico e di evitare di contare sulla leva della finanza pubblica, chiedendo però incrementi di tasse e sostenendo una politica non espansiva. Per questo occorre riflettere a livello europeo, magari ragionando anche su effetti e problematiche molto concrete, come il Patto di Stabilità, che spesso impediscono l’utilizzo di risorse che invece sarebbero disponibili.
Crede che il problema sia anche legislativo?
Delle criticità dal punto di vista legislativo certamente esistono, tanto che durante la crisi tutti i paesi europei sono intervenuti sulle regole del lavoro. Nonostante ciò la filosofia più cercata è stata quella di rendere più facili i licenziamenti, con il presunto obiettivo di dare più chance occupazionali.
Una ricetta che ha funzionato?
Ovviamente no. Mercati maturi come quelli europei richiedono investimenti non sulla flessibilità a prescindere, ma sulla buona occupazione, sulle competenze e su quelle specializzazioni produttive che sono ancora la forza dell’Europa e del nostro Paese. Basti pensare che il grosso del manifatturiero ancora resiste in Paesi come l’Italia, in Germania e in poche altre aree del mondo occidentale, a conferma del fatto che l’industria manifatturiera, composta non solo di fabbriche ma di competenze e di mestieri che oggi il nostro sistema formativo fa fatica a incentivare, va assolutamente preservata.
Alla luce delle sue considerazioni, cosa dimostra in Italia l’attuazione della riforma del mercato del lavoro?
La riforma del mercato del lavoro in Italia ha dimostrato che il dirigismo non paga e che non si può governare un mercato in continua evoluzione come quello che stiamo vivendo attraverso un’impostazione centralista. Occorre invece valorizzare le dinamiche territoriali e le reali qualità del territorio attraverso una riforma non delle leggi del lavoro ma del sistema di relazioni industriali e della contrattazione collettiva.
Cosa si aspetta invece per i prossimi mesi in Europa?
Il dato europeo è certamente preoccupante nella sua globalità, però esistono paesi in cui l’occupazione sta crescendo e la disoccupazione sta diminuendo, quindi è chiaro che il problema non riguarda tutto il continente ma quei Paesi che non stanno sostenendo il cambiamento dei mercati e del lavoro. L’Europa, in particolare quella del Sud, è molto arretrata dal punto di vista di quelle importanti riforme, sia normative che comportamentali, che sono state fatte in sistemi industriali di Paesi come la Germania, ma anche l’Olanda e l’Austria. Quei Paesi, insomma, che hanno una tradizione più cooperativa nei rapporti tra capitale e lavoro.
(Claudio Perlini)