Il dibattito sul Jobs Act torna a concentrarsi solo intorno ai temi legati all’articolo 18. La ricerca di un accordo fra le componenti del Pd ha portato a rivedere quanto già votato al Senato e quindi, per rispettare l’obiettivo di approvare il testo entro dicembre, serve un accordo che regga il ritorno al Senato in tempi brevi del nuovo testo della Camera (l’inutilità delle due camere per leggi di riforma volute dal governo in carica non poteva essere rimarcata meglio di così). Il compromesso formale riguarda la precisazione rispetto ai reintegri per i licenziamenti disciplinari. Ma deve fissare il nuovo limite, e allora ci dirà se sta prevalendo una nuova concezione del lavoro o se si tornerà all’ideologia del posto di lavoro.
Il tema fondamentale del confronto (che non riguarda solo la sinistra) è proprio quello di superare una concezione del lavoro, ridotto solo a posto e reddito conseguente, che ha ingessato le regole del nostro mercato del lavoro e ha prodotto uno scontro entro cui negli anni passati si è inserita la violenza terrorista. Tutta la manovra riformatrice sul mercato del lavoro può reggersi se chiarisce i termini culturali di fondo. Si tratta di rimettere al centro la persona con il suo bisogno principale: attraverso il lavoro esprime nel modo migliore la necessità che ha di entrare in relazione con gli altri e con il mondo che gli è stato assegnato.
È il desiderio di esprimere le proprie capacità mettendole a disposizione, in uno scambio relazionale continuo e capace di soddisfare il proprio desiderio di realizzazione perché capace di consegnare agli altri qualcosa che si ritiene migliore. Può tutto ciò ridursi a posto e reddito? Non richiede invece una risposta proattiva che, di fronte alle difficoltà della vita, rilanci queste capacità della persona nel rimettersi in gioco?
In questo senso una parte del provvedimento di delega cerca di ridisegnare i servizi al lavoro. Il presidente del Consiglio, nello spiegare l’obiettivo principale della riforma, aveva fatto riferimento proprio a questo obiettivo. Le sue parole furono che chi si trova in difficoltà perché alla ricerca di lavoro per la prima volta, o perché entrata in crisi l’azienda dove lavorava, deve avere la certezza di trovare un’agenzia che “lo prende in carico”, cioè che si prenda cura del suo bisogno di ritrovare lavoro.
Per realizzare questo programma, la delega introduce alcuni punti precisi. Prende atto che oggi il nostro sistema usa la quasi totalità delle risorse per politiche passive con sostegni al reddito, ma ciò ha fino a oggi bloccato la mobilità dei lavoratori. Per questo sposta risorse a favore di politiche attive e introduce la condizionalità, per cui chi non si mette in moto per accrescere la propria occupabilità perde il sostegno al reddito.
Per assicurare questa “presa in carico” si delinea, anche se in modo appena accennato, una rete di agenzie pubbliche e private che dovranno proporre a tutti coloro che cercano lavoro un percorso di orientamento/formazione finalizzato a trovare una nuova occupazione. Tutta la rete di agenzie, pubbliche o accreditate, saranno gestite/coordinate da una agenzia nazionale di nuova costituzione che assicurerà, nelle more delle competenze regionali e nazionali, un livello di tutela garantito uguale per tutti. Ciò dovrebbe portare al superamento di trattamenti diversi oggi presenti fra regioni e talvolta anche fra provincie.
È evidente che per fare tutto ciò senza nuovi aggravi di costi si dovrà indirizzare la spesa a favore di percorsi che riducano al minimo quelli legati al sostegno al reddito e favorire quelli per servizi che favoriscano un veloce passaggio da lavoro a lavoro. La cassa integrazione rimarrà solo per quei lavoratori che verranno realmente riassunti nell’impresa di origine e un reddito di mobilità garantirà invece per uno/due anni chi dovrà ricercare una nuova occupazione.
Anche le imprese saranno chiamate, attraverso il contratto di ricollocazione, a finanziare i servizi legati alla “presa in carico”. Come avviene in altri paesi europei in caso di licenziamenti collettivi per ragioni economiche, parte delle risorse altrimenti date ai singoli lavoratori come “buonuscita” formeranno un fondo utilizzato per finanziare servizi di outplacement.
Come accennato, si tratta di una riforma che ha profonde radici culturali. Senza avere chiaro che il nuovo sistema può essere definito solo partendo dalla centralità della persona e dalla capacità, da parte di chi “la prende in carico”, di rimettere in moto le sue capacità relazionali e il suo desiderio di lavoro come relazione, si rischia di creare un nuovo sistema di servizi burocratici che gestiranno liste di disoccupati come nei vecchi uffici di collocamento. Per questo servirà assicurare la riforma con importanti supporti culturali. Dobbiamo vincere troppi sedimenti storici che hanno portato a comportamenti contrari al desiderio di partecipazione.
Oggi, di fronte alla richiesta di rinunciare a una quota dell’assegno di buonuscita per finanziare percorsi di ricollocazione, la maggioranza dei lavoratori sceglie il massimo nell’assegno. Esempi contrari vi sono stati, come gruppi dirigenti sindacali che non hanno scelto la via più facile, ma, assieme all’azienda, si sono impegnati in un’opera di convinzione. Ciò è possibile però se è chiara la concezione che vede nella persona non solo il produttore, ma tutto il suo desiderio di vivere la realtà.
Per questo la sfida non è solo nel disegnare una buona rete di uffici che facciano nuovi servizi al lavoro. La sfida è cambiare il modo con cui si valorizzano le persone e chiamare tutti i soggetti coinvolti a dare un contributo di idee ed esperienza per fare emergere una nuova concezione delle relazioni sul lavoro.