RIFORMA PENSIONI 2014/ Flessibilità e risparmio, “l’equilibrio” che funziona nella Legge di stabilità
Nella riforma delle pensioni, per GUIDO CANAVESI, è giusto tenere conto di un logoramento legato a 41 anni di lavoro e applicare le penalizzazioni per chi supera i 3.500 euro mensili

La penalizzazione per chi si ritira dal lavoro prima dei 62 anni varrà solo per le pensioni superiori ai 3.500 euro lordi al mese. È quanto prevede l’ultima versione della parte previdenziale della legge di stabilità, che deroga così alla riforma Fornero ma solo per le pensioni sotto a un determinato tetto. Intanto l’Ocse è intervenuto sul tema della previdenza, affermando che l’Italia è prima nella classifica tra i paesi sviluppati relativa all’incidenza della spesa pensionistica sulle casse statali. Ne abbiamo parlato con Guido Canavesi, professore di Diritto del lavoro all’Università degli Studi di Macerata.
Che cosa ne pensa dell’emendamento alla manovra sulle pensioni?
Le penalizzazioni erano previste nella legge Fornero per chi andava in pensione con meno di 62 anni di età, ma avendo lavorato almeno 41 anni. Siamo di fronte a persone che hanno lavorato per due terzi della loro vita. Si comprende da questo punto di vista una facilitazione all’uscita a un’età anteriore rispetto all’uscita normale dal mondo del lavoro.
Perché tornare indietro oggi a tre anni dalla legge Fornero?
La legge Fornero aveva come obiettivo lo spostamento in avanti per tutti della fuoriuscita dal mercato del lavoro, con la prospettiva di lavorare fino a 70 anni. Prevedere una limitazione delle penalizzazioni per chi ha una pensione inferiore a un certo livello è un bilanciamento legittimo. È giusto prevedere un effettivo contributo e tenere conto di un logoramento della persona legato a 41 anni di lavoro, e altresì applicare comunque le penalizzazioni per chi supera i 3.500 euro mensili.
Quindi si tratta di una soluzione di compromesso?
Sì, così si crea un compromesso tra le due esigenze: da un lato riconoscere ai lavoratori una fuoriuscita anticipata in considerazione del peso della loro anzianità lavorativa, e dall’altra una minore incidenza sui costi, perché che va in pensione prima la percepisce per un numero maggiore di anni. In questo secondo caso si tiene conto del fatto che ci sarà un costo pensionistico superiore a quello di un lavoratore normale. Tanto più che praticamente tutti i lavoratori con 42 anni di contributi rientrano nel sistema retributivo. La soluzione trovata nella Legge di stabilità è tutto sommato accettabile dal punto di vista dell’equità complessiva dei valori e delle esigenze in gioco.
Che cosa ne pensa di quanto affermato dall’Ocse sul sistema previdenziale in Italia?
È noto che l’Italia è uno dei paesi in cui c’è sempre stato un maggior peso della finanza pensionistica o quantomeno previdenziale sulle risorse pubbliche. Tutte le riforme attuate dal 1992 avevano espressamente come obiettivo quello di stabilizzare il rapporto tra spesa pensionistica e Pil e hanno avuto come prospettiva il contenimento della spesa pensionistica per ridurre l’incidenza sulla spesa pubblica complessiva. Questa esigenza del resto è uno dei principi alla base della riforma Fornero del 2011. L’Ocse non dice quindi una cosa particolarmente nuova.
Per l’Ocse le pensioni in Italia sono particolarmente basse. Lei che cosa ne pensa?
Questo è un problema reale per una serie di motivi. Nel 1995 c’è stata una forte riduzione degli assegni con il passaggio dal sistema di calcolo retributivo a quello contributivo. È avvenuto così un primo costante “abbattimento” della promessa pensionistica e del tasso di sostituzione tra reddito e pensione. In questi anni le pensioni hanno subito un’ulteriore decurtazione in conseguenza dei criteri di perequazione automatica che sono stati applicati. L’adeguamento dei trattamenti pensionistici al costo della vita non è più integrale, ma da diverso tempo è calcolato in relazione all’entità della pensione. È pari al 100% su una pensione che corrisponde a tre volte il trattamento minimo, per poi andare a calare.
(Pietro Vernizzi)
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