“Prevedere sei contratti a tempo determinato in tre anni e nello stesso tempo un contratto indeterminato a tutele progressive è un controsenso. In questo modo i datori di lavoro non sono affatto incentivati a privilegiare il contratto a tempo indeterminato rispetto a quello a termine”. E’ la critica all’impianto del Jobs Act mossa da Maurizio Del Conte, professore di Diritto del lavoro all’Università Bocconi. Dopo che la riforma aveva suscitato la profonda insoddisfazione della sinistra Pd, il governo si è detto disponibile a ridurre i possibili rinnovi in tre anni da otto a sei. Il decreto è ora in discussione alla Camera dei deputati per la conversione in legge, e il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, parlando all’assemblea dei parlamentari del Pd si è detto disponibile ad accettare in parte le loro proposte.
Professor Del Conte, che cosa cambierà riducendo da otto a sei i possibili rinnovi?
Il fatto di passare da un massimo di otto a sei contratti in tre anni, significa passare da frazioni di quattro mesi, com’era nella versione originale del decreto, ad altre di sei mesi. Abbiamo quindi la possibilità di contratti a termine senza la causale per tre anni, frazionabili in questi segmenti. Dal punto di vista della sostanza non cambia molto, anche se resta confermata l’impostazione di avere come canale privilegiato di ingresso al rapporto di lavoro il contratto a termine. Questa scelta è decisamente in contraddizione con l’idea, a lungo sostenuta dal governo, di un contratto a tempo indeterminato a tutele progressive. Resta da vedere come si riuscirà a mettere insieme queste due disposizioni che di fatto sono tra loro antagoniste.
Ritiene che questa contraddizione possa essere sanata?
Se si crea un contratto a termine che di fatto è recedibile per i primi tre anni senza pagare alcun tipo di penalizzazione, vedo abbastanza difficile che un datore di lavoro preferisca passare a un’assunzione a tempo indeterminato dal momento che quest’ultima è più onerosa. Le aziende cercano di solito la strada più semplice, e il contratto a tempo indeterminato a tutele progressive sarà quindi decisamente penalizzato rispetto alla scelta meno “costosa” del contratto a termine.
Il problema non sta già nel contratto a tempo indeterminato in sé?
Personalmente sono abbastanza dubbioso sul fatto che sia opportuno introdurre una nuova tipologia contrattuale, come il contratto a tempo indeterminato a tutele progressive. Il problema non è la proliferazione delle forme contrattuali, bensì la reale possibilità di investire sul lavoro in termini di sviluppo economico. Se noi abbiamo delle imprese che crescono, avranno tutto l’interesse ad assumere a tempo indeterminato i loro dipendenti,. Il vero problema però è che non si investe in formazione sui contratti a tempo determinato.
E’ per questo che ritiene che l’enfasi non vada messa sulle forme contrattuali?
Ancora oggi la grande attenzione del legislatore è sull’ingegneria contrattuale, cioè sul fatto di immaginarsi qualche nuova figura di contratto che teoricamente dovrebbe creare lavoro. A questa equazione credo molto poco in quanto il lavoro si crea se c’è sviluppo e aumento di valore per ora lavorata. Occorre dunque competere in produttività e sul piano del valore aggiunto con i nostri concorrenti europei.
Rispetto alla Fornero, il Jobs Act è un passo avanti oppure indietro?
E’ un “passo di fianco”, in quanto la riforma di Renzi si smarca abbastanza si smarca abbastanza dalla legge Fornero. L’impostazione è sicuramente diversa, perché almeno stando a quanto si è letto finora il Jobs Act mette in atto un’azione più di sistema. Non si limita cioè a incidere sul licenziamento e sui contratti, ma mette in campo un’azione che dovrebbe coinvolgere a 360 gradi l’economia del Paese, favorendo in particolare lo sviluppo di settori che in Italia potrebbero realmente avere un margine di competitività speciale. Il mio auspicio è che nel Jobs Act ci sia una svolta anche per quanto riguarda gli ammortizzatori sociali, che è mancata nella riforma Fornero.
(Pietro Vernizzi)