DECRETO LAVORO/ Il “purgatorio” creato da Renzi per i lavoratori

- int. Antonio Pileggi

Il Decreto lavoro è stato convertito in legge, modificando la disciplina dei contratti a termine e dell’apprendistato. Il commento di ANTONIO PILEGGI alla nuova normativa

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Il Decreto lavoro è stato convertito in legge, modificando la disciplina dei contratti a termine e dell’apprendistato. Gli effetti sull’occupazione si potranno valutare solamente tra qualche mese. Ma c’è già chi evidenzia alcuni limiti della nuova normativa. È il caso di Antonio Pileggi, ordinario di Diritto del Lavoro dell’Università di Roma Tor Vergata.

Professore, ritiene che il decreto lavoro convertito in legge possa definirsi una riforma capace di “rottamare” il vecchio diritto del lavoro e di “favorire il rilancio dell’occupazione” (com’è scritto nel titolo del decreto), rendendo più facile assumere con contratto a termine e con contratto di somministrazione?

È una riforma che estremizza la tanto (giustamente) bistrattata riforma Fornero nel processo, da tempo in atto, di riduzione-rimozione (“rottamazione”, se preferisce) delle tutele del lavoro, ritenuta necessaria, a torto o a ragione, per sostenere la crescita delle imprese e dell’occupazione (“riforma del mercato in una prospettiva di crescita”, è scritto nel titolo della legge Fornero: la prima legge con la excusatio non petita incorporata nel titolo).

In che senso la riforma Poletti estremizza la riforma Fornero? Perché flessibilizza ancor di più la disciplina del contratto a termine?

Esatto. Nell’incessante tira e molla tra le contrapposte maggioranze alternatesi al governo, per irrigidire o flessibilizzare la disciplina del contratto a termine (D.lgs. n. 368 del 2001: il testo di legge, forse, più “novellato” della storia del diritto; il primo a prevedere un comma “01”), la riforma Poletti è quella che si è spinta più avanti sulla strada della flessibilizzazione. La strada seguita è quella già tracciata dalla riforma Fornero, che, però, ora è stata percorsa fino in fondo. Dopo più di mezzo secolo (l. n. 230 del 1962) è stato “rottamato” il principio di causalità del contratto a termine (della necessità, cioè, di una ragione che lo giustificasse) e si è quasi tornati al sistema del codice civile (art. 2097 c.c.). Ora l’unica misura prevista dall’ordinamento tra quelle indicate dalla normativa comunitaria (clausola 5) per impedire l’abuso nella reiterazione dei contratti a termine è la previsione di una durata massima totale di 36 mesi.

Cos’è cambiato rispetto alla riforma Fornero?

La riforma Fornero, novellando il citato D.lgs. n. 368 del 2001, aveva previsto che solo il primo contratto a termine a-causale avesse durata massima di un anno e non fosse prorogabile. I successivi eventuali contratti a termine, entro il limite dei 36 mesi, dovevano essere casuali. Sono poi intervenuti, sul tormentato D.lgs. n. 368 del 2001, addirittura altri due decreti legge (n. 179 del 2012 n. 76 del 2013), il secondo dei quali aveva già abrogato il divieto di proroga del primo contratto a-causale. La Riforma Poletti consente non solo che possa essere stipulato un contratto a-causale di durata triennale (oltre non è possibile andare, se non assumendo a tempo indeterminato, come già previsto), ma che, entro il triennio di durata massima, siano possibili addirittura 5 proroghe, alla sola condizione che il lavoratore continui a svolgere la stessa attività e che il numero dei lavoratori con contratto a termine a-causale non superi il 20% dei dipendenti a tempo indeterminato occupati nell’azienda. Non solo. La Riforma Poletti prevede pure che per le imprese con meno di cinque dipendenti il contratto a termine sia sempre consentito, senza alcun limite temporale.

In pratica lei vuole dire che con le 5 proroghe il datore di lavoro, pur sapendo di avere sempre necessità del lavoratore e non per un periodo breve, potrebbe però ugualmente decidere di assumerlo con contratto a termine di 6 mesi, fissando questo termine senza alcuna ragione, e poi potrebbe prorogare il contratto di 6 mesi in 6 mesi, per 5 volte, fino ad arrivare a un massimo 36 mesi, e infine decidere cosa fare del lavoratore: se, cioè, stabilizzarlo o fare cessare il rapporto di lavoro senza nemmeno doverglielo comunicare e senza preavviso?

Esatto. Aggiunga pure che quella decisione il datore di lavoro potrebbe riservarsela fino a un massimo di 6 volte: il datore di lavoro ogni 6 mesi potrebbe scegliere se porre fine al rapporto di lavoro, senza dover dare alcun preavviso, ma avvalendosi della scadenza contrattuale, o se proseguire. Nell’esempio fatto, è come se il datore di lavoro, per legge, potesse disporre di ben 6 periodi di prova della durata (minima garantita per il lavoratore) di 6 mesi ciascuno, riservandosi di volta in volta la scelta se assumere a tempo indeterminato il dipendente oppure no, per poi iniziare un nuovo ciclo, dopo 36 mesi di (sostanziale) prova, con un nuovo lavoratore assunto a termine di 6 mesi in 6 mesi. Se il datore di lavoro decide, alla scadenza di ogni singola proroga, di far cessare il rapporto di lavoro, non dovrà nemmeno dare il preavviso al lavoratore, esattamente come avverrebbe se il lavoratore fosse assunto con patto di prova: patto di prova che, però, non è prorogabile e non può superare per legge i sei mesi (ma i contratti collettivi prevedono periodi ben più brevi, per i livelli di inquadramento più bassi).

 

Ma il datore di lavoro potrebbe comunque stipulare un contratto a termine della durata di 36 mesi, o comunque, ad esempio, di durata annuale, per poi prorogarlo al massimo una volta o due.

Sì, ma non gli conviene. Sa perché il datore di lavoro (certo non illuminato) del nostro esempio, invogliato da un legislatore che non solo glielo consente, ma sembra quasi suggerirglielo, ha interesse a stipulare un contratto a termine di breve durata, da prorogare ripetutamente, specie per mansioni ripetitive o fungibili di lavoratori che, evidentemente, non ha interesse a fidelizzare?

 

Lo dica lei. 

Perché se pattuisse un termine più lungo, o coincidente con il triennio, il datore di lavoro potrebbe recedere ante tempus prima della scadenza soltanto per giusta causa: il rapporto di lavoro sarebbe cioè assistito da una forte stabilità (la cosiddetta stabilità reale di diritto comune) fino alla scadenza. Con lo “spezzettamento” delle proroghe il datore di lavoro può, invece, “recedere” a ogni scadenza. Le proroghe sono state previste dalla riforma Poletti a tutela non del lavoratore, ma del datore di lavoro. Non a caso, il loro numero, in sede di conversione, è stato ridotto da 8 a 5 per non esagerare con l’instabilità del rapporto ed evitare che i periodi di prova fossero addirittura nove, rispetto agli attuali sei.

 

Dunque, attraverso le 5 proroghe, se fossero utilizzate dalle imprese, il lavoratore finirebbe per perdere anche la stabilità che gli verrebbe assicurata da una scadenza a lungo termine del contratto di lavoro e sarebbe sempre sotto “osservazione”.

Sì, è così. Del resto, gli esami non finiscono mai. In più, lo ripeto, il datore di lavoro non dovrebbe mai dare alcun preavviso, pur potendo, nell’arco dei 36 mesi, far cessare il rapporto di lavoro alla scadenza di ogni proroga. Quest’ultimo rilievo mi fa venire in mente la ragione per la quale è stata introdotta, nel lontano 1962, la prima disciplina fortemente limitativa del contratto a termine. All’epoca il datore di lavoro era libero di licenziare senza motivo il lavoratore assunto a tempo indeterminato, e dunque l’assunzione a termine non serviva a eludere una legge limitativa del potere di licenziamento che ancora non c’era e che sarebbe stata introdotta soltanto nel 1966 (limiti erano previsti da accordi interconfederale), ma per non dover dare al lavoratore il preavviso di licenziamento e l’indennità di anzianità.

 

Ma se assumere a tempo determinato ha tutti questi vantaggi, e non è così importante fidelizzare il dipendente, o il dipendente non ha la forza di imporre un’assunzione stabile e definitiva, tutte le imprese potrebbero avere interesse ad assumere a termine, senza causale, una percentuale del 20% dei dipendenti a tempo indeterminato, evitando così sempre l’applicazione dell’art. 18, pur se depotenziato dalla Fornero.

Sì, ma se anche non fosse applicabile l’art. 18, ma la sola tutela obbligatoria prevista per le imprese più piccole (indennizzo per il licenziamento da 2,5 a 6 mensilità), sarebbe comunque conveniente assumere a termine prorogabile per i primi 36 mesi, considerando anche la possibilità di non dare il preavviso, sottoponendo reiteratamente a prova il dipendente.

 

Insomma, lo strumento per rilanciare l’occupazione è un “purgatorio” di 36 mesi prima dell’assunzione definitiva. Scusi ma un imprenditore serio perché dovrebbe tenere appeso così a lungo un dipendente bravo, e che non vuole rischiare di perdere? Perché non dovrebbe stabilizzarlo subito, se non ha alcuna ragione per assumerlo a termine?

È vero. Ma il diritto del lavoro, una volta, si basava sulla diffidenza nei confronti del datore di lavoro (sana o insana non lo so), ed era dunque “tarato” non sull’imprenditore serio, virtuoso e illuminato del suo esempio (secondo una visione che un tempo si sarebbe definita “paternalistica” del rapporto di lavoro), ma su un imprenditore considerato soggetto socialmente pericoloso, come ripeteva il mio maestro, sottolineando gli eccessi di tutela e il rischio che i lavoratori poco virtuosi se ne approfittassero, come spessissimo è accaduto. Ora, siamo forse passati da un estremo all’altro. È il diritto del lavoro a indurre in tentazione l’imprenditore virtuoso, cui offre fino a sei occasioni per decidere se stabilizzare o no il rapporto. E se la legge ti concede uno strumento perché non approfittarne? Anche perché non si finisce mai di conoscere le persone.

 

Ma, se non occorre nei primi 36 mesi di durata del rapporto di lavoro, quanto occorre addurre una causale per assumere a termine un lavoratore?

Certamente non occorre, anzi, è del tutto inutile, specificare una causale dopo il decorso dei 36 mesi di lavoro a termine, comprensivi di proroghe e rinnovi, nel senso che se il lavoratore continua a lavorare oltre il rapporto di lavoro si considera comunque a tempo indeterminato ai sensi dell’art. 5, 4 comma bis, D.lgs. n. 368 del 2001. Il datore di lavoro ha interesse a stipulare un contratto a termine, specificando la causale, soltanto per poter superare la soglia del 20% dell’organico aziendale, prevista, dal nuovo art. 1, comma 1, D.lgs. n. 368 del 2001, per la stipulazione dei contratti a termine a-causali (stipulati, cioè, ai sensi dell’art. 1). A meno di non ritenere che sia vietata qualsiasi assunzione a termine oltre la soglia (comunque sanzionata economicamente e non con la conversione).

 

Dunque, come diceva prima, sono sparite le causali?

Nel nuovo testo del D.Lgs. n. 368 del 2001 sono state fatte sparire due norme essenziali nell’economia della precedente disciplina: quella (già contenuta nel vecchio testo dell’art. 1, comma 1) che prevedeva che “è consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto a fronte di ragioni di carattere tecnico, organizzativo, produttivo e sostitutivo, anche se riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore”; quella (già contenuta nel comma 2) nella quale si prevedeva non solo che “l’apposizione del termine è priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto” (parte che è rimasta), ma anche che nell’atto scritto dovessero essere specificate “le ragioni di cui al comma 1” (parte che è stata ora abrogata).

 

Quindi è cambiato tutto: l’assunzione a termine non deve mai avvenire a fronte di ragioni tecnico, organizzative, produttive e sostitutive che, pertanto, non devono mai essere specificate nell’atto scritto.

Così sembrerebbe. Anche se poi si continua a dire che “Il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro” (comma 01) e si continuano a prevedere specifiche ipotesi in cui è consentito assumere a termine senza causale (imprese di trasporto aereo e servizi aeroportuali e imprese concessionarie di servizi postali), come se ancora si trattasse di eccezioni alla regola che impone di assumere a termine soltanto a fronte di una causale specificata nel contratto di lavoro.

 

Almeno non ci saranno cause dall’esito incerto sulla sussistenza delle ragioni che giustificano l’apposizione del termine e sull’adeguata specificazione di esse nel contratto.

Se si eliminano norme di tutela del lavoratore si eliminano in radice anche le cause di lavoro per chiederne l’applicazione. Ma, specie di fronte a comportamenti, pur rispettosi della lettera della legge, quale quello adottato dallo spregiudicato (e si auspica, isolato) imprenditore indicato come esempio (quello che consuma tutte le proroghe a sua disposizione ed esaurito il termine massimo i 36 mesi ricomincia il ciclo con un altro lavoratore) un contenzioso potrebbe sorgere sia invocando la frode alla legge (legge che prevede pur sempre che il contratto a tempo indeterminato sia la forma comune d rapporto di lavoro), sia un contrasto con la normativa comunitaria, in relazione all’inadeguatezza delle misure (durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi e numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti) previste al fine di prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, anche se le suddette misure sono proprio tra quelle previste dalla normativa comunitaria.

 

Ma così almeno si rilancia l’occupazione e si combatte la peggiore precarietà che, come dice la Confindustria, è quella di chi resta disoccupato 

È vero. Ma mi permetto di dire che il diritto del lavoro è nato storicamente proprio per evitare che pur di non essere costretto alla disoccupazione (peggior forma di precarietà) il lavoratore accettasse di lavorare a qualsiasi condizione. E poi, bastasse una legge per rilanciare l’occupazione! Da vent’anni a questa parte tutti le leggi sul mercato del lavoro “preambolano” con il rilancio dell’occupazione. È vero che le imprese hanno tutto l’interesse ad assumere se le cose vanno bene e c’è una domanda di mercato: ma il problema è poterselo permettere, con tutte le tasse e i contributi che il datore di lavoro deve pagare sul lavoro. E quanto al contratto a termine, costringere le imprese a pagare un contributo aggiuntivo dell’1,40% e rendere le retribuzioni non detraibili a fini Irap non è certo un modo per incentivare le imprese ad assumere a termine. Da un lato, dunque, il legislatore elimina la causalità del contratto a termine, per rilanciare l’occupazione, ma, allo stesso tempo, lo tassa di più, con la scusa ipocrita di considerarlo un lavoro “non comune”, non stabile, e non di qualità, e con la scusa di preferire le assunzioni a tempo indeterminato! L’ennesima ipocrisia.







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