“L’articolo 18 è assolutamente solo un simbolo, un totem ideologico, proprio per questo trovo inutile stare adesso a discutere se abolirlo o meno. Serve solo ad alimentare il dibattito agostano degli addetti ai lavori”. Lo ha sottolineato il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, rispondendo alla proposta avanzata dal ministro dell’Interno, Angelino Alfano, per poi aggiungere: “È giusto riscrivere lo Statuto dei lavoratori? Sì, lo riscriviamo. E riscrivendolo pensiamo alla ragazza di 25 anni che non può aspettare un bambino perché non ha le garanzie minime. Non parliamo solo dell’articolo 18 che riguarda una discussione tra destra e sinistra. Parliamo di come dare lavoro alle nuove generazioni”. Abbiamo chiesto un commento a Michele Tiraboschi, professore di Diritto del lavoro all’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia.
Professore, che cosa ne pensa della risposta di Renzi ad Alfano sul tema dell’articolo 18?
Quello dell’articolo 18 è un tema che si ripropone ciclicamente, focalizzando l’attenzione su un aspetto importante, ma che fa parte di un impianto più complessivo del sistema di regolazione del mercato del lavoro. È sicuramente positiva la proposta di Renzi di affrontare il tema dei licenziamenti nell’ambito di uno statuto complessivo del lavoro che ha presente innanzitutto le opportunità di ingresso nel mercato, le tutele, e in particolare il fatto che il lavoro negli ultimi 40-50 anni è profondamente cambiato. È cambiata la natura per profili legati all’impatto delle tecnologie, e anche per cambiamenti ambientali, climatici e demografici. Riscrivere l’impianto complessivo del diritto al lavoro è quindi la soluzione da seguire.
Il Nuovo Centro Destra aderirà a questa visione?
Sono un tecnico e non un politico, ma all’interno di Ncd il senatore Sacconi ha dimostrato negli anni una visione e una progettualità che vanno ben oltre l’articolo 18. Di Sacconi ricordo il Libro bianco sul Mercato del lavoro del 2001, e più di recente il Libro bianco sul Futuro del Welfare del 2008. Nell’ambito di questo scenario e di questa visione anche Ncd ha una progettualità, e soprattutto non è legato a quei tabù e a quelle eredità storiche e ideologiche che caratterizzano buona parte del Pd. Proprio per le diverse anime della coalizione di governo, sono molto preoccupato perché vedendo quanto è accaduto due anni fa con la riforma Fornero temo che si finirà per portare a casa una riforma pasticciata e di compromesso.
Lei ha lavorato al ddl presentato un anno fa in Senato sullo Statuto dei Lavori. Può essere la soluzione che cercano tanto Renzi quanto Alfano?
L’attuale dibattito è concentrato sul contratto unico o a tutele crescenti, cioè sull’idea che il lavoro del futuro possa essere regolato attraverso rapporti subordinati o standard a tempo indeterminato, anche se resi più leggeri perché verrebbe meno l’articolo 18. L’idea di Statuto dei Lavori è invece una logica pluralista e sussidiaria che supera l’ottica di una subordinazione giuridica, che era propria del vecchio modo di organizzare il lavoro nella fabbrica fordista e taylorista. Un conto è lavorare nella manifattura e un altro in edilizia, agricoltura, turismo e servizi. Per ogni settore produttivo e tipologia di azienda servono regole adattabili, specifiche e su misura.
Che cosa cambierebbe in tema di tutele e obbligo di reintegro con il passaggio dallo Statuto dei Lavoratori a quello dei Lavori?
Con lo Statuto dei Lavori si costruirebbero delle tutele crescenti per il lavoratore basate innanzitutto sulle sue caratteristiche soggettive, come l’età e l’anzianità aziendale. Più cresce il mio affidamento a stare in una determinata azienda, più è giusto che crescano le tutele e le garanzie che mi si devono dare. Si punterebbe inoltre molto sull’apprendistato come contratto a tutele crescenti, con carriere basate non sulle tipologie contrattuali in sé, come stabile e precario, bensì sulla valorizzazione dei mestieri e delle professioni.
Che cosa ne pensa del disegno di legge delega sul Jobs Act che in questo momento è al Senato?
Renzi era partito molto bene a gennaio presentando un Jobs Act basato non tanto sulle regole o sulle leggi, quanto sul rilancio dell’economia, sul sostegno alle imprese, su politiche industriali e su logiche finalizzate a valorizzare alcuni settori produttivi trainanti per l’economia italiana. Quelli tradizionali come la manifattura, ma anche quelli a forte impatto per il futuro come la tecnologia, i lavori verdi, il turismo e la cultura. Nel passaggio dal quadro di visione al disegno di legge, il Parlamento ha preso il sopravvento applicando logiche del secolo scorso. Temo quindi che il dibattito sul Jobs Act, trasportato in Parlamento, rimanga a quella normativa di cornice, che in realtà dovrebbe venire dopo aver impostato i fondamentali della nuova economia per l’Italia.
(Pietro Vernizzi)