Alcuni recenti interventi sul sindacato, sul suo ruolo in Italia e sulle necessità che esso adegui strategie di azione e iniziative operative al servizio degli interessi generali e del bene comune (vedi su questo giornale, in particolare, Massimo Ferlini e Daniel Zanda), pongono il “dito nella ferita” degli assetti sociali e di come il Paese si è configurato, dagli anni ‘60 del secolo scorso in poi. Ma chiariamo una cosa, spesso ovvia ma non scontata: parliamo di sindacato ovvero di cosa parliamo?
È come se parlassimo di sistema politico facendone di “tutta un’erba un fascio”, a prescindere dalle responsabilità, dalle specifiche formazioni, dai singoli partiti, nati, morti e trasformati nel corso delle diverse fasi della Repubblica, dai ruoli di governo, di opposizione o di neutralità (l’italica astensione…). Dovremmo (e, forse, dobbiamo) parlare di sindacati, cercando di dare un nome e un cognome alle singole formazioni, un modo di segnalare e riconoscere (per così dire) fatti e misfatti, dando a Cesare quel che è di Cesare.
In questo senso un plauso a Ferlini per il riconoscimento del ruolo della Cisl, che, in alcune aree dell’ex parastato protetto e in alcune vicende industriali (la Fiat in primis), ha saputo assumersi le proprie responsabilità a viso aperto, abbandonando logiche di mero interesse a breve per guardare ai beni di maggior stabilità e durevolezza, quali gli assetti delle imprese e le conseguenze in termini di prospettive dell’occupazione e del reddito.
Non che la Cisl e alcune sue strutture siano esenti da peccati, ma occorre dare atto a Bonanni e ad alcuni capi delle strutture di categoria e periferiche, ad esempio i segretari della Lombardia e della Sicilia, regioni dove sono concentrate sul piano industriale, sociale e di evoluzione del welfare le maggiori e più rilevanti problematiche collegate alla dinamica cittadini/beni/risorse disponibili, dobbiamo dare atto, dicevamo, che queste scelte di concretezza e responsabilità non sono indolori.
Non può sfuggire a nessuno, salvo coloro che non hanno mai visto come sono fatti i luoghi di lavoro, che la dinamica della rappresentanza (e in particolare quella specifica sindacale) è un legame molto stretto, correlato a cose e fatti sociali da produrre ovvero segnalare esigenze entro cui rispondere con cose concrete in termini di tutele contrattuali, di reddito e di servizi sociali, il cosiddetto welfare integrativo (il secondo welfare, per dirla con Maurizio Ferrera).
Non è immediato, con l’acuirsi della crisi e con il ridimensionamento delle imprese, affermare che il mantenimento delle imprese stesse, seppur riorganizzate e ristrutturate, è il primo obiettivo delle vertenze sindacali e solo successivamente negoziare quali tutele sociali introdurre, per rendere accettabili ridimensionamenti del reddito, sospensioni e rescissioni dei rapporti di lavoro.
Non è facile, in un mercato della rappresentanza dove chi grida di più, e contemporaneamente promette, rischia di vincere (con qualche parallelo politico-parlamentare che lo sta a dimostrare); non è facile sostenere i delegati nei luoghi di lavoro, che si muovono con responsabilità e realismo, venendo tacciati tutti i giorni di essere “amici del padrone” e traditori della causa, con le conseguenze, perché non dirlo, anche sulle dinamiche quantitative degli associati stessi! Solo chi vive di apparenza e superficialità può ancora permettersi di parlare di “sindacato che sta sulla luna”, come qualcuno ha recentemente affermato a proposito di Alitalia. I fatti ovvero i diversi accordi siglati nelle ultime settimane, che stanno portando alla faticosa soluzione per l’assetto della compagnia, dimostrano con firme e non firme chi le responsabilità se le è assunte e chi no. E non si capisce perché i Ministri non possano fare nomi e cognomi.
Ad esempio, è la Cgil che, in questi giorni, ha deciso di presentare una denuncia alla Commissione Ue per le misure sul lavoro del Decreto Poletti, in particolare per le modifiche sul contratto a termine, affermando che le norme sono in contrasto con alcune Direttive e non è tutto il sindacato che si difende con la logica delle “carte bollate”. Ma per guardare le cose con “meno tifoseria da spalti” e con un po’ più di sano distacco non possiamo non scorgere l’affievolirsi di una minor presenza delle rappresentanze sociali nei processi decisionali, tanto da far dire al prof. De Rita circa la possibile fine del ruolo delle rappresentanze stesse (Confindustria compresa).
Le recenti modifiche alle materie del lavoro sono state assunte senza nessun processo di consultazione con le diverse istanze delle imprese e dei lavoratori, sono stati tagliati oltre la metà dei permessi sindacali nell’area del lavoro pubblico, si stanno predisponendo importanti provvedimenti che attenuano la discrezionalità delle diverse burocrazie, dal prossimo anno Caf e Patronati potrebbero cambiare mestiere riconvertendosi ad altro e, sempre secondo De Rita, tutti dovranno “farsene una ragione”. Forse si sta passando da un eccesso all’altro: sta di fatto che, comunque, i sindacati, tutti, dovranno rendersi conto che le cose, molte cose, possono procedere anche senza il loro assenso, senza il loro consenso.
Oltre a farsene una ragione, occorrerà reinventarsi ruoli e funzioni in alcuni casi, con la necessità di creare valore anche dentro la dinamica delle contrattazioni e dei confronti, con tempi più rapidi e con meno riti congressuali. Se poi qualche giornalista parla male dei sindacati occorre “farsene una ragione”: meglio che se ne parli male piuttosto che non parlarne.
Poi vedremo le impressioni di settembre, auspicando tutti la ripresa del Pil, altrimenti non ce ne sarà per nessuno.