La dirigenza pubblica e il Jobs act rappresentano i temi più spinosi della riforma della Pubblica amministrazione in esame in questi giorni al Senato. In termini astratti, le linee generali evidenziate a più riprese sui media dal ministro della Pubblica amministrazione (da ultimo su Repubblica dello scorso 16 marzo) sembrano ineccepibili e condivisibili. In quanto alla dirigenza, il Ministro e la riforma puntano sulla valutazione e la licenziabilità dei dirigenti “inadeguati”. In quanto all’estensione del Jobs Act, meglio dire dell’abolizione del reintegro a seguito del licenziamento, l’orientamento del Governo è contrario, perché per un verso i licenziamenti potrebbero essere orientati da matrici politiche, per altro verso il costo del reintegro peserebbe sulle risorse pubbliche e, dunque, occorre andare cauti.
A meglio vedere, tuttavia, le cose assumono prospettive molto diverse. Per quanto concerne la riforma della dirigenza, i punti salienti enunciati dalla riforma e dalle ripetute interviste degli esponenti del governo sono: l’eliminazione dell’inamovibilità dei dirigenti, salvaguardando la loro autonomia; la soppressione della progressione di carriera automatica; l’introduzione dell’abilitazione allo svolgimento della funzione, nell’ambito di un ruolo unico; efficaci strumenti di valutazione.
Obiettivi giustissimi, se non fosse vero che il quadro del ddl al Senato giunge a risultati opposti. La Ministra Madia afferma, nell’intervista a Repubblica, che il Governo poteva optare per lo spoil system, ma ha scelto per una dirigenza autonoma, però non più inamovibile. Ma tale indicazione non è una scelta libera e discrezionale. Il Governo non poteva affatto optare per lo spoil system, in quanto esso è giudicato da giurisprudenza pacifica della Consulta, a partire dal 2007, come incostituzionale.
Oltretutto, i dirigenti sono da sempre perfettamente amovibili. L’articolo 21, vigente e pieno di vita, del d.lgs 165/2001 consente da anni e anni di revocare gli incarichi e addirittura licenziare i dirigenti che, a seguito della valutazione, non risultino in grado di conseguire gli obiettivi e anche i dirigenti “infedeli”, che senza motivazioni tecniche o giuridiche vìolino le direttive politiche.
Ancora, nella dirigenza non esiste alcuna progressione automatica di carriera: sia perché in molti comparti (come regioni ed enti locali) non ci sono le due fasce, sia perché l’ascesa dalla seconda alla prima fascia avviene o per selezione, oppure per scelta discrezionale dell’organo politico, mai per automatismi.
La realtà è, invece, che il disegno di legge finisce per cogliere obiettivi completamente opposti alle enunciazioni. Infatti, puntare su una sorta di “abilitazione” alla dirigenza, significa lasciare mano libera agli organi politici di assegnare gli incarichi con piena discrezionalità. Tanto è vero che nel ddl si dispone che ai dirigenti appartenenti ai ruoli, dunque ai dirigenti di carriera, gli incarichi dirigenziali “possono” essere conferiti, non debbono, come sarebbe normale. Il che permette, allora, alla politica di infarcire la dirigenza di incaricati provenienti dall’esterno dei ruoli e attivare il più spinto degli spoil system, senza doverlo regolare esplicitamente.
Infatti, configurare l’assegnazione di incarico come mera possibilità significa che chi dispone della qualifica dirigenziale conseguita per concorso non ha un diritto a svolgere gli incarichi conseguenti. Pertanto, gli organi politici possono lasciare senza incarico qualsiasi dirigente senza nemmeno doversi scomodare a spiegare le ragioni, sostituirlo con dirigenti esterni e disfarsene: infatti, basterà che resti senza incarico per un periodo di tempo dato (si parla di due anni) per troncare il rapporto di lavoro.
Altro che spoil system, altro che valutazione. E tanti saluti anche alla presunta impossibilità di estendere al lavoro pubblico le conseguenze del JobsAct: per la dirigenza si aprono le porte a licenziamenti che potrebbero essere anche discriminatori o politici, ma senza alcuno strumento di tutela.
Approfondendo, poi, proprio il tema dell’influenza del JobsAct sul lavoro pubblico, la ratio che spinge il Governo a escluderne l’estensione ai dipendenti pubblici, per quanto difficilmente sostenibile alla luce del principio di parità di trattamento dei cittadini enunciato dall’articolo 3 della Costituzione, potrebbe anche essere condiviso. Il problema è che nel ddl delega al Senato non c’è traccia alcuna di norma che espressamente affronti e risolva la questione. E questo è un grave problema.
Infatti, esistono, attualmente, ben due disposizioni espresse che estendono automaticamente le disposizioni delle leggi sul lavoro nell’impresa e dello Statuto dei lavoratori, comprese le loro modifiche: sono gli articoli 2, comma 2, e 51, comma 2, del d.lgs 165/2001. Se la riforma del lavoro pubblico non modifica queste disposizioni, l’effetto dell’applicazione automatica del JobsAct non può essere scongiurato, anche se parte della dottrina (Carinci) lo ritiene possibile, ma contraddetta dalla giurisprudenza dei giudici del lavoro.
Oggettivamente, altri temi come la titolarità della competenza a svolgere i controlli sulle malattie o l’ulteriore inasprimento delle sanzioni disciplinari o la semplificazione dei procedimenti sanzionatori, appartengono più al “colore” e alla ricerca del consenso mediatico, che alla reale esigenza e potenzialità di riforme della Pubblica amministrazione.
In questo frangente, pare manchino, invece, le misure organizzative per scongiurare gli effetti della corruzione. È vero che la disciplina della corruzione è, oggi, autonoma da quella del lavoro pubblico, ma ciò costituisce sostanzialmente un errore, visto che le regole della normativa anticorruzione incidono e moltissimo sia sull’organizzazione, sia sul rapporto di lavoro: basti pensare che le violazioni al codice etico o ai programmi anticorruzione costituiscono illeciti disciplinari.
Da questo punto di vista, appare incomprensibile l’intento di abolire i segretari comunali, che nei comuni sono il presidio anticorruzione.