Da pochi mesi il Jobs Act ha circoscritto le ipotesi di reintegra in caso di licenziamento illegittimo a fattispecie del tutto residuali. In particolare ai casi di licenziamento discriminatorio, nullo, o intimato in forma orale, oppure, in caso di licenziamento disciplinare, ai casi in cui il fatto materiale contestato non sussiste. Il testo del decreto n. 23/2015, all’art. 3, restringe i casi di applicazione della sanzione estrema della reintegra rispetto all’art. 1, comma IV, novellato dalla Legge Fornero.
Se nella disciplina previgente, infatti, veniva lasciata al giudice una certa discrezionalità – era possibile disporre la reintegra solo ove il fatto contestato fosse insussistente, oppure nei casi in cui il fatto rientrasse tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi o dei codici disciplinari applicabili -, la nuova formulazione appariva molto più stringente. Tanto che si pensava che con un testo così rigoroso fosse la componente discriminatoria a rischiare di venire ampliata al fine di reintrodurre la reintegra nella rosa delle possibili conseguenze del licenziamento infondato, da parte dei soggetti che adivano l’autorità giudiziaria al fine di ottenere una declaratoria di illegittimità del recesso datoriale.
Queste le premesse alla luce delle quali deve essere letta la sentenza della Corte di Appello di Brescia del 30 aprile 2015. È importante premettere, come peraltro facilmente intuibile vista la cadenza temporale delle norme in questione e della pronunzia in commento, che la sentenza non riguarda direttamente un caso in cui sia applicabile il contratto a tutele crescenti, di cui al citato decreto n. 23/2015, eppure la portata dei principi ivi espressi è tale da renderli astrattamente applicabili anche alla nuova tipologia contrattuale che fa della flessibilità in uscita la propria bandiera.
I fatti: a un dipendente addetto alla formazione veniva contestata la circostanza di aver tenuto un contegno litigioso e protervo nei confronti dei discendi, tanto da costringere l’azienda, prima a rimuoverlo dalla mansione e poi ad aprire un procedimento disciplinare, comprensivo anche del rifiuto del dipendente di elidere il superminimo a lui garantito proprio in ragione della specifica mansione formativa. La procedura disciplinare sfociava in un licenziamento che il lavoratore impugnava dinnanzi al Tribunale di Bergamo, il quale in primo grado ne disponeva la reintegra. La Corte di Appello di Brescia confermava la sentenza del giudice di prime cure con motivazioni che si possono tranquillamente definire sorprendenti.
La Corte, infatti, afferma che non solo l’insussistenza del fatto materiale contestato può giustificare la reintegra, ma che essa possa essere disposta anche qualora lo stesso fatto, seppur materialmente sussistente, si risolva in un inadempimento tale da essere trascurabile. In particolare, il licenziamento sarebbe sanzionabile con la reintegra, laddove la violazione, anche se non codificata nelle elencazioni che preludono alle sanzioni conservative, si traduca in un evidente abbaglio del datore di lavoro, o nel suo torto palese, o nella pretestuosità della contestazione, ecc.
Ora chiaramente le locuzioni come “evidente abbaglio” e “torto palese” hanno una portata talmente ampia e indefinita da non poter avere un preciso significato giuridico. Quel che è certo è che se un giudice, o meglio un collegio, può prescindere dal testo della norma per disporre la reintegra anche laddove il fatto contestato sia materialmente sussistente, allora tale principio potrebbe essere esteso anche al contratto a tutele crescenti, proprio perché l’insussistenza del fatto potrebbe ravvisarsi anche quando lo stesso, pur accaduto, si presenti senza caratteristiche di antigiuridicità o di imputabilità della condotta.
Un simile ragionamento è pericoloso perché permetterebbe al potere giudiziario di sostituirsi a quello legislativo, che ha manifestato chiaramente la volontà politica di riformare l’articolo 18, escludendo quasi del tutto la reintegra nella nuova tipologia contrattuale. A ben vedere però l’art. 3 del Decreto n. 23/2015 specifica qualcosa di più rispetto alla legge Fornero; perché vi sia reintegrazione il fatto contestato deve essere “materialmente” inesistente, “esclusa ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”. Rimane dunque da vedere se questa ulteriore precisazione sarà sufficiente a limitare il potere discrezionale dei giudici.