La primavera politica sarà calda. Alla scadenza elettorale amministrativa si sommano attacchi al Governo al traino di vicende giudiziarie che anche questa volta sono caratterizzate più dall’uso delle intercettazioni che non dalla chiarezza sul reato perseguito. Ma in fase elettorale e con la situazione economica che non migliora le opposizioni, pur se divise, trovano una loro unità e ragione d’essere solo nella contrapposizione totale. Ciò che serve al Paese viene messo da parte pur di rosicchiare qualche voto nelle urne.
Anche un referendum inutile come quello delle trivellazioni per il petrolio diventa così una occasione di scontro invece che di riflessione. È inutile perché è già stato previsto che non vi saranno nuove concessioni. In più non sarebbe sensato intervenire a bloccare la possibilità anche per il nostro Paese di avere una quota di autonomia energetica da materie prime.
È in questo quadro che i sindacati hanno aperto una loro campagna primaverile sul tema delle pensioni e la Cgil ha aggiunto una raccolta di firme contro alcuni aspetti del Jobs Act. La questione pensionistica posta ruota essenzialmente sulla richiesta di rivedere la riforma Fornero per quanto attiene alla flessibilità dell’età pensionistica e la possibilità di prevedere quindi un anticipo con più o meno penalizzazione per gli interessati. L’intervento Fornero è certamente rivedibile sotto molti aspetti. La necessità di uscire con un testo di riforma in tempi rapidi e, che aveva come obiettivo indispensabile il contenimento entro una certa cifra del peso delle pensioni sulla spesa pubblica per rispondere ai diktat europei, ha fatto sì che alcuni punti non abbiano registrato la lucidità che caratterizza però la riforma nel suo complesso. Il fatto che sul tema esodati i successivi governi siano dovuti intervenire più volte, indica che resta un aspetto che richiede una revisione al fine di non dover inseguire con provvedimenti parziali singoli eventi annuali.
Anche il tema della flessibilità in uscita soffre di una frettolosa scrittura che non ha tenuto conto dell’impatto che avrebbe avuto su lavori usuranti e su professioni che non assicurano il mantenimento del lavoro oltre una certa età. Il problema però alla base di ogni intervento proposto non può che essere la compatibilità con i limiti della spesa pubblica. Non ci sono più margini per operazioni che non tengono conto della compatibilità complessiva della spesa.
Anche gli interventi, peraltro un po’ intempestivi se non concordati con il governo, fatti dal presidente dell’Inps, cercano su questo punto di trovare un’autosostenibilità attraverso il taglio di privilegi pensionistici che vengono da scelte passate.
La piattaforma sindacale sembra ignorare tutto ciò. Afferma con toni quasi leghisti che si deve riformare la Fornero e dare a tutti la possibilità di avere una flessibilità non penalizzante riportando in essere la situazione precedente. Verrebbero così cancellati una serie di interventi, decisi da più governi che si sono succeduti, che erano tesi a dare certezza al peso del costo pensionistico rispetto alle disponibilità finanziarie dello Stato.
Tutto ciò viene presentato come un impegno a favore dell’occupazione giovanile sulla base di una teoria, falsa quanto però populisticamente spendibile, per cui se lavorano gli anziani vi saranno meno posti di lavoro per i giovani. Falsa come teoria, ma basterebbe guardare l’evidenza dei numeri nei paesi europei.
I paesi a più alto tasso di occupazione nella fascia di età over 55 sono anche i paesi che hanno la maggiore occupazione giovanile. I tassi di occupazione non dipendono dagli schemi pensionistici. Dipendono invece dalla capacità di allargare la base produttiva del Paese e da politiche dell’occupazione che sostengono le fasce più deboli.
Anche i dati degli ultimi mesi riferiti al mercato del lavoro italiano indicano che per l’occupazione giovanile ha fatto più il Jobs Act, la riforma del contratto a tutele crescenti e l’introduzione del sistema duale a sostegno dell’apprendistato, che l’impatto delle riforme sulle pensioni.
Non possiamo prendere per finito il numero degli occupati, per cui il posto di lavoro per un giovane si apre solo a scapito di uno che si ritira dal mercato. Così accetteremmo una stasi del nostro sistema produttivo che porterebbe a una crescita complessiva della disoccupazione e non a una crescita dell’occupazione giovanile.
Il tema in Italia si pone, con ancora maggiore urgenza, per il basso tasso di occupazione femminile. Anche per questo servono politiche contrattuali e del lavoro che incidano sui fattori strutturali che tengono fuori dal mercato del lavoro molte donne.
La mistificazione del tornare a età più basse di pensionamento per favorire la ripresa occupazionale è ancora più evidente nella campagna referendaria avviata dalla Cgil contro il Jobs Act. Qui il rifiuto di vedere i nuovi vincoli che la globalizzazione ha portato all’economia avanzata è totale. Lo sconvolgimento portato dalle trasformazioni economiche apre un problema di nuove regole con mercati più flessibili. In questa sfida il nostro sistema produttivo perde colpi. La nostra produttività stenta a recuperare e per farlo richiede a imprese a lavoratori un nuovo patto sull’organizzazione dei fattori produttivi.
Qui si apre una nuova fase per tutele e diritti dei lavoratori che non possono trovare aiuto nelle piattaforme del passato. Nella stagione delle riforme che si è aperta con il Jobs Act anche le organizzazioni sindacali devono porsi un problema di riforma della loro rappresentanza. Qualcuno vorrebbe tornare a essere cinghia di trasmissione come era decenni fa, con la politica che dettava la linea anche al sindacato.
Non si può certo tornare a quei tempi. Ma l’errore che appare in alcune componenti sindacali è ancora peggiore. Si cerca la scappatoia di tornare alla teoria alla cinghia di trasmissione con il sindacato che detta la linea alla politica. Così il rischio è l’implosione delle rappresentanze e una sconfitta delle riforme a tutela del lavoro.