Anche le questioni del lavoro e delle relazioni industriali si fermano ufficialmente per una ventina di giorni, ma contatti, rapporti e orientamenti (se non addirittura decisioni) continuano, in qualche caso si fanno addirittura più intensi. Nel riordinare le carte che ho sulla scrivania assegnandole ai vari dossier in cui cerco di lasciare traccia dell’impegno quotidiano sono tre le questioni che mi sentirei di indicare come prioritarie in rapporto alle cose da fare per intervenire sulla gravità della situazione.
La prima questione che le parti sociali hanno di fronte nel nostro Paese è il lavoro, che fa fatica a riprendersi come attività diffusa e generatrice di reddito: sono tanti i settori in stagnazione, ma soprattutto preoccupano le grandi trasformazioni che stanno avvenendo in alcuni comparti (manifatturieri e commerciali innanzitutto), senza che si abbia la percezione degli indirizzi e degli sbocchi. Infatti, come segnalato con dovizia dalla recente indagine parlamentare sulle frontiere dell’innovazione, con particolare riferimento a Industry 4.0, le azioni di sostegno dovranno essere molteplici e da parte di più attori, se vogliamo accompagnare la mutazione di prodotti, servizi e processi per continuare a essere competitivi e poter dimostrare di possedere ancora un made in Italy concreto, pervasivo e all’altezza di aspettative crescenti verso le nostre produzioni e richieste dai mercati internazionali; sul tema le analisi e le conclusioni dei report di Federlegno Arredo e di Ucimu (macchine utensili) sono molto eloquenti.
L’investimento di sostegno a un’imprenditoria diffusa riguarda tutte le dimensioni dell’impresa: finanza e credito, macchinari e ingegneria, marketing e flussi produttivi, flessibilità e formazione (tecnica e trasversale, per orientare comportamenti adeguati e per applicare conoscenze e competenze distintive). E questo è un compito primario delle parti sociali, perché il lavoro non si genera né con i comizi, né con le lobbies (esplicite o nascoste), ma solo attraverso una capillare iniziativa di sostegno a tutti i livelli settoriali e territoriali (quindi non solo romani), non disconoscendo che è il ciclo economico, oltre alle regole e ai comportamenti organizzativi e collettivi, il vero fattore che trascina le attività.
La seconda questione riguarda un’impressionante deficit di alcune decisioni applicative del Jobs Act: infatti, nelle diverse manovre correttive si ha la percezione che le politiche attive, ovvero la predisposizione di sedi e luoghi di orientamento alla ricerca del lavoro per i tanti e diversi protagonisti (gli stakeholders interni al mercato del lavoro), siano ancora molto sulla carta e negli intenti, sia dei nuovi protagonisti dei processi decisionali (di stretta osservanza renziana), sia delle classi dirigenti ministeriali e degli apparati preposti.
Forse una sottile e sempre meno nascosta conflittualità di ruoli e idee sta paralizzando gli sforzi intorno alla necessità di dotarsi di nuovi strumenti e modalità di aiuto a un mercato sempre più flessibile, che genera percorsi brevi, con competenze in qualche caso corte e in altri casi molto trasversali.
Giovani e meno giovani, donne e uomini, inoccupati e collocati in percorsi di ammortizzatori sociali, precari e instabili di media lunga durata, con competenze medio basse o inadeguate (quanti certificati di laurea non in grado di essere attrattivi!): le persone, in particolare coloro che lavorano in modo discontinuo, debbono trovare sedi e accessi informativi efficienti ed efficaci (oltre che informatizzati), in una situazione che va velocizzandosi nei processi di domanda/offerta, con la segnalazione di nicchie e opportunità che rischiano di non trovare persone disponibili.
È encomiabile l’impegno delle nuove realtà sindacali che si stanno consolidando sul fronte della promozione di nuove tutele per i lavoratori non standard: Felsa Cisl, vIVAce (la nuova aggregazione delle partite Iva) e altre associazioni segnalano, con la loro iniziativa nel mondo del lavoro dei somministrati e delle varie tipologie parasubordinate e autonome, la necessità di predisporre forme e percorsi territoriali che possano realmente aiutare l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro, attraverso l’azione degli operatori pubblici e privati del mercato del lavoro. Questa è una sfida che riguarda tutto il sistema che si occupa di gestire e regolare il lavoro ed essendo tanti gli attori occorre operare per disegni e programmi condivisi; se la destra non sa quel che fa la sinistra, dice un famoso detto, non si va da nessuna parte…
Il terzo dossier che vedo (ma forse dovrei dire intravedo perché è un bandolo della matassa che si afferra e si perde in continuazione) è quello delle relazioni industriali in quanto tali, del loro futuro, della loro “utilità sociale ed economica”, del loro essere al servizio del processo democratico o, al contrario, di un loro declino lento ma inesorabile, che coincide con un’incapacità di cogliere e offrire soluzioni alle problematiche delle produzioni e delle organizzazioni dei beni e dei servizi disponibili, siano essi pubblici o privati.
E qui le cose sono veramente paradossali in quanto si stanno moltiplicando gli accordi sui requisiti della rappresentanza sociale e sindacale (Confapi, Artigiani, Confimi, Cooperative e altri), sulla possibilità di realizzare gli sgravi fiscali per il secondo welfare in azienda e per le retribuzioni variabili (sempre Confapi e Confindustria): quindi tutto bene? In verità le intese si realizzano se gli attori sono disponibili a fare il proprio mestiere, a stare negli ambiti “assegnati” dalla realtà, a contribuire al bene proprio e comune coincidente, contestualmente, con la competitività delle imprese e la difesa di reddito e dell’occupabilità delle persone impiegate; infatti, solo riconoscendo tutti i fattori presenti (e dandogli loro un peso) si possono conseguire soluzioni equilibrate ed accettabili.
Ecco, accanto agli atti formali servono sempre più anche soluzioni sostanziali e in parte diversificate, adeguate agli effettivi bisogni e aspettative dei diversi interessi rappresentati. Infatti, di fronte al rinnovo del contratto collettivo del settore metalmeccanico, fermo al palo da oltre 8 mesi, si ha la sensazione che si stia giocando una partita per il riassetto dei poteri interni all’associazione delle imprese industriali e questo non ha molto a che fare con gli specifici interessi di lavoratori e imprese coinvolte. A dimostrazione di ciò sta il fatto che, sempre nei settori industriali, altri contratti sono stati rinnovati in queste settimane: il settore del vetro, quello degli occhiali (con la famosa Luxottica), il contratto dei chimici vari nelle piccole e medie imprese, quello delle grandi lavanderie industriali, l’igiene ambientale e altri sono in dirittura di arrivo (petrolio, ad esempio).
Al Meeting di Rimini sono attesi, prima di fine agosto, sia il nuovo presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, che Annamaria Furlan, leader della Cisl e vedremo se tratteggeranno i segni di un rinnovato percorso o se saremo di nuovo di fronte a “un già visto”.
Mentre chiudo l’ufficio mi viene da pensare che forse dovremmo anche abituarci a chiudere con un vecchio modo di guardare la realtà, sempre meno omologata a schemi troppo datati e ormai incapaci di ricomprenderla. Abbiamo la responsabilità di guardare le cose per quelle che sono. Il tempo corre e non ci è dato di farlo scivolare via senza fare fino in fondo la nostra parte.