In un sistema finanziario moderno i fondi pensione svolgono una funzione centrale: agiscono, infatti, come fattori di sviluppo e stabilità, potendo contare generalmente sia su un flusso costante di contribuzioni in entrata, sia su risorse di stock in accumulo, considerata l’indisponibilità delle somme che costituiscono la posizione individuale (il cosiddetto “zainetto”) da parte dello stesso lavoratore, se non al momento dell’accesso alla pensione. Per la verità, in Italia questo effetto è temperato da almeno due fattori: il primo è la crisi economica che rende il lavoro sempre più precario e privo di tutele e forme di incentivazione alternative ai puri incrementi salariali (tema già analizzato più volte); ciò naturalmente crea discontinuità lavorativa che si riflette sul finanziamento dei fondi pensione, con piani di risparmio che subiscono lunghe e spesso definitive battute di arresto. Il secondo è la possibilità prevista dai fondi pensione italiani di attingere in vari modi al proprio zainetto prima della pensione, che possono ridurne l’ammontare in misura significativa.
In ogni caso, la presenza di investitori istituzionali di lungo termine (in Italia, il patrimonio dei fondi pensione vale complessivamente 140 miliardi di euro) va di pari passo con la possibilità di dirottare risorse verso settori anche nevralgici dell’economia, contribuendo a costruire quel sistema alternativo al tradizionale credito bancario di cui ci sarebbe un gran bisogno. Si tratta di un mondo relativamente giovane: pur essendoci esperienze in alcuni casi secolari, soprattutto nel ramo bancario e assicurativo, la legge che disciplina in modo organico l’istituzione e il funzionamento dei nuovi fondi pensione risale al 1993 e ha subito profonde revisioni nel corso degli anni: nel 2007, ad esempio, è stata introdotta la possibilità di destinare ai fondi pensione il Trattamento di fine rapporto (Tfr), anche con meccanismi di silenzio-assenso, decorsi sei mesi dall’assunzione. Chi ha un po’ di familiarità con il settore è consapevole di un quadro normativo assai articolato, a tratti intricato e confuso, con scelte non sempre coerenti da parte del Legislatore, soprattutto sul piano fiscale.
La Legge di Stabilità 2015 ha – diciamo pure “proditoriamente” – innalzato l’aliquota di tassazione dei rendimenti finanziari prodotti dalla gestione dall’11% al 20% e ne ha stabilito addirittura l’effetto retroattivo all’esercizio 2014 in barba allo Statuto del contribuente, espressamente derogato per l’occasione: in prospettiva, l’aumento di 9 punti percentuali della tassazione potrebbe tradursi in una riduzione della rendita vitalizia annua di oltre il 3% in capo al percettore, ipotizzando una gestione in monte mista con il 50% di Titoli di Stato che scontano una minore aliquota e in una riduzione del 6% in assenza di Titoli di Stato. Va detto per completezza che la medesima legge ha previsto un’agevolazione in forma di credito di imposta (del 9%) a favore delle risorse destinate dai fondi pensione a sostegno dell’economia reale in alcuni settori strategici, quali la produzione e il trasporto di energia, il turismo, le infrastrutture, ecc. Ma il meccanismo per fruirne è piuttosto complesso e l’entità dello stanziamento dello Stato a tal fine (80 milioni di euro a decorrere dal 2016) va ripartita con le Casse di previdenza.
La legge di Bilancio 2017, approvata definitivamente il 7 dicembre u.s., è nuovamente intervenuta su tale aspetto, prevedendo un’esenzione di imposta a favore dei redditi generati dalle somme destinate fino al 5% dell’attivo patrimoniale dei fondi pensione in investimenti cosiddetti “qualificati”, rappresentati da azioni o quote di imprese residenti in Italia o in Stati membri dell’Unione europea con stabile organizzazione in Italia, oppure da azioni o quote di organismi di investimento collettivo del risparmio (ad esempio, i fondi comuni) residenti in Italia o Unione europea, che investano prevalentemente nei predetti titoli. Per godere del beneficio fiscale è previsto un vincolo di detenzione minima di 5 anni. Il vantaggio fiscale non opera soltanto sui rendimenti prodotti dal fondo pensione, ma anche in capo al percettore della prestazione finale, non essendo assoggettati all’imposta sul reddito (Irpef) neppure in tale fase.
Diversamente dal 2014, il Legislatore non ha dettagliato l’oggetto degli investimenti agevolabili, limitandosi a inserire un limite geografico (Italia o Europa) e temporale (5 anni); spetterà verosimilmente alle funzioni competenti del fondo pensione decidere come investire, ossia se destinare le risorse verso titoli quotati sui mercati finanziari, senza discostarsi molto dalle politiche attuate finora salvo una maggiore concentrazione nazionale ed europea, o selezionare imprese e settori sensibili dell’economia, con un potenziale sviluppo per diverse aree del Paese.
Non posso non notare un grande assente – almeno ad una prima e superficiale lettura della norma – tra i potenziali beneficiari di questa pur importante agevolazione: il mondo del non profit, rappresentato da quella miriade di associazioni e imprese che hanno contribuito non poco a sostenere le famiglie e le persone in questa situazione di perdurante crisi economica. Si sarebbero potute prevedere ulteriori agevolazioni fiscali in caso di devoluzione da parte dei fondi pensione di somme a sostegno di attività e progetti sociali, ambientali o educativi per garantire comunque una forma di redditività: un po’ il mestiere delle fondazioni per intenderci. Sarebbe stata una boccata di ossigeno per il Terzo settore e, perché no, anche per la previdenza complementare, che per definizione ha una finalità sociale.