È un quadro decisamente preoccupante quello che viene delineato nel corposo Rapporto Ocse “Strategia per le competenze” per Italia presentato ieri. Qualche dato: l’Italia conta sul 20% di laureati tra a 25 e 34 anni contro il 30% della media dei paesi Ocse; i laureati hanno competenze di lettura e matematiche il cui livello si posiziona al 26° posto su 29 paesi Ocse; l’Italia è “l’unico Paese del G7” in cui la quota di lavoratori laureati in posti con mansioni di routine è più alta di quella relativa ad attività non di routine.
I lavoratori con competenze in eccesso (11,7%) e sovraqualificati (18%) rappresentano una parte importante della forza lavoro, maggiore di quella che si trova sotto il livello richiesto: infatti il 6% risulta avere competenze basse rispetto al lavoro che fa e il 21% è sottoqualificato. Il 35% dei lavoratori svolge lavori non correlati ai percorsi di studio frequentati.
In realtà i dati esposti delineano una situazione ben nota: in Italia le competenze dei giovani che si avvicinano al sistema produttivo non sono adeguate a rispondere alle richieste delle aziende, soprattutto in relazione alle esigenze di innovazione. Le cause del fenomeno sono complesse e hanno radici profonde. Troppo a lungo nel nostro Paese i sistemi formativo e produttivo hanno seguito strade indipendenti e con scarsi contatti tra di loro.
I pochi tentativi di far dialogare le due realtà e di riuscire a elevare il livello di istruzione nazionale, aprendo al contempo le porte della scuola a un’auspicata “cultura tecnica” basata sulle competenze hanno trovato resistenze importanti soprattutto nel sistema formativo. Ancora oggi nelle nostre scuole superiori – e non solo nei licei – prevale un insegnamento di tipo disciplinare basato principalmente su lezioni frontali e sulla pretesa di saperi enciclopedici, rispetto a un più impegnativo e fruttuoso metodo didattico basato sull’acquisizione di competenze. Se poi si vanno ad analizzare le metodologie didattiche messe in atto nella gran parte delle Università italiane, anche qui ci si trova di fronte a didattiche basate principalmente su lezioni accademiche e studio individuale.
Quindi a una prima analisi potrebbe sembrare l’arretratezza del sistema scolastico italiano l’unica causa delle problematiche rilevate dall’Ocse. In realtà anche il mondo della produzione industriale e in generale il sistema sociale hanno le loro colpe. La struttura produttiva italiana soffre limiti dovuti alla dimensione limitata della gran parte delle aziende e alla poca disponibilità delle stesse a condividere funzioni. L’ottica miope della produzione spinta ha spesso portato a trascurare la formazione interna all’azienda e la condivisione dei sistemi formativi in scala ampia.
Il paradosso della carenza di tecnici qualificati nelle aziende italiane, contrapposto all’elevata disoccupazione giovanile è la conseguenza più evidente di una situazione che dovrà al più presto essere radicalmente rivista. I dati Ocse parlano chiaro: l’intero sistema produttivo nazionale rischia seriamente di essere compromesso e di restare arretrato.
Come intervenire? Lo stesso rapporto indica alcuni provvedimenti che sono stati posti in atto dal Governo e che cominciano a dare i primi risultati. La contestata legge 107/2015 “buonascuola” ha introdotto azioni di sistema che hanno portato, pur tra mille difficoltà, a un’apertura verso una formazione integrata (Alternanza Scuola Lavoro). La stessa legge ha in parte rivisto le normative sul sistema terziario professionalizzante (Its) che, rilanciato poi dal piano del Governo su Industria 4.0, costituisce l’unico segmento dell’istruzione italiana che si basa su governance mista (formazione, impresa, istituzioni).
Questi, assieme ad altri quali il Jobs act e il piano scuola digitale, sono interventi ancora allo stato iniziale e che potranno avere sviluppi positivi nei prossimi tempi, ma dietro di essi si comincia a intravvedere un generale cambiamento di mentalità. Dalle collaborazioni scuola-azienda legate all’Alternanza Scuola Lavoro si stanno già iniziando a sviluppare iniziative di integrazione dei sistemi formativi con quelli produttivi e anche il mondo accademico sta cercando una non semplice strada di dialogo con le imprese. Purtroppo la lentezza del cambiamento, soprattutto nei sistemi formativi tradizionali, rischia di vanificare a livello di sistema le sperimentazioni di successo che si stanno attuando e saranno necessarie scelte coraggiose e investimenti importanti a livello governativo per spingere la scuola verso l’innovazione.
Un’ultima riflessione. Circa un terzo dei lavoratori italiani svolge mansioni lavorative non in linea con la formazione ricevuta. È evidente che qualcosa non funziona nelle scelte personali effettuate. A oggi non esiste in Italia, se non in forma molto limitata, un sistema organico di orientamento al lavoro e l’orientamento scolastico è affidato per la gran parte ai singoli istituti, mentre le iniziative poste in essere a livello locale spesso sono scoordinate e contradditorie. È un tema complesso, ma anche su questo si dovrà lavorare cercando di ragionare sempre con un’ottica di sistema.