L’occupazione giovanile è regolarmente tra le priorità di tutti i programmi politici. E a ragione. L’Italia non solo ha il livello più alto in Europa di giovani senza lavoro, ma è agli ultimi posti anche in molte altre statistiche che riguardano la scolarità, dalle percentuali di abbandoni al più basso numero di laureati, dai risultati deludenti dei test di apprendimento alla stabilità dei docenti. Ci sono poi limiti strutturali nel mercato del lavoro e nelle logiche sindacali che ostacolano quel dinamismo che sarebbe richiesto per l’impiego, pur senza rinunciare alle garanzie, in un periodo di grandi trasformazioni tecnologiche.
L’alternanza scuola-lavoro, cioè la possibilità di affiancare al momento formativo un’esperienza diretta all’interno di un’impresa, costituisce una risposta che potrebbe soddisfare due esigenze fondamentali: in primo luogo orientare i giovani verso le professioni loro più congeniali, in secondo luogo fornire le basi per una professionalità continuamente da perfezionare.
Il modello tedesco viene spesso portato come un esempio da seguire soprattutto guardando ai risultati positivi: in Germania la disoccupazione giovanile è attorno al 6%, ai livelli più bassi d’Europa, un dato peraltro molto vicino a quello della disoccupazione complessiva. E sul modello tedesco ha fatto perno la riforma varata poco più di un anno fa, quella chiamata “la Buona scuola”, che ha reso praticamente obbligatorio il varo di iniziative che consentano un rapporto aperto e costruttivo tra le scuole e le imprese.
Nelle esperienze della Germania e dei paesi che da anni hanno adottato criteri simili come Austria, Svizzera, Danimarca, non c’è tuttavia solo un’alternanza scuola-lavoro fortemente sostenuta dai finanziamenti pubblici, ma ci sono tutta una serie di strutture normative e regolamentari che facilitano l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro: dall’apprendistato alle scuole tecniche, dalla formazione a una dimensione culturale che riconosce la dignità del lavoro in ogni sua forma.
Anche il modello tedesco ha comunque il proprio tallone d’Achille. Lo spiega molto bene Emmanuele Massagli nel libro “Alternanza formativa e apprendistato in Italia e in Europa”, Ed. Studium, pagg. 256, € 23. “È da verificare – scrive Massagli – che sia l’apprendistato scolastico così svolto e regolato il dispositivo pedagogico più efficace per affrontare la grande trasformazione in atto. Il mercato del lavoro, infatti, ha sempre più bisogno di collaboratori duttili e adattativi, capaci di affrontare con competenza situazioni estremamente diversificate; ogni strategia formativa orientata alle competenze specifiche e a mestieri delimitati rischia di essere velocemente obsoleta, oltre a fornire un pessimo servizio ai giovani che vi si affidano”.
Ecco quindi l’esigenza non solo di valorizzare al massimo le iniziative di alternanza tra scuola e lavoro, ma anche di prestare una forte attenzione ai processi in corso all’interno del sistema economico e delle singole imprese e andando oltre l’obiettivo di fornire competenze tecniche e nozioni comportamentali.
Scrive Massagli riferendosi all’alternanza scuola-lavoro: “Più propriamente si potrebbe definirla ‘integrazione’, superando anche l’ultimo residuo di distanza nel significato del termine italiano: integrazione tra teoria e pratica e, quindi, integrazione tra formazione e lavoro all’interno dei percorsi scolastici e formativi”. Sottolineando tuttavia che “l’alternanza formativa è destinata a fallire se concepita come una opzione formativa, un possibile percorso di istruzione e formazione aggiuntivo a quelli tradizionalmente erogati”.
È quest’ultima logica che ha reso poco efficaci le limitate esperienze realizzate in Italia negli ultimi decenni e che rischia tuttavia di essere ripetuta, anche su più vasta scala, con l’ultima riforma che ha comunque già dato uno scossone alle iniziative delle scuola. Il problema è quello di non avere un approccio unicamente tecnicistico e professionale, ma di guardare all’integralità della persona con l’obiettivo di affiancare alle competenze anche quei criteri di giudizio e di valore indispensabili per muoversi nell’età delle grandi trasformazioni.
“I sistemi scolastico-universitari nazionali – conclude Massagli – non devono essere ridisegnanti in funzione dell’alternanza per migliorare le performance occupazionali degli studenti, come sta accadendo nel contesto europeo da quando è iniziata la crisi economico-finanziaria del 2008, bensì gli indicatori relativi alla disoccupazione e all’inattività giovanile miglioreranno solo se i sistemi scolastico-universitari sapranno rimettere al centro della loro attenzione l’educazione integrale della persona e, così facendo, inevitabilmente incoraggiare una maggiore integrazione tra formazione e lavoro”.
Una sfida aperta sia per le scuole che per le imprese, una sfida fondamentale per una società che non può più permettersi di disperdere le potenzialità e le risorse delle nuove generazioni.