Il dibattito sulle politiche attive del lavoro e l’attuazione del Jobs Act rischia di tornare a contrapposizioni ideologiche, a muri di incomprensione e far riaffiorare tesi di forte negazione come nel periodo di approvazione della riforma ispirata al Libro bianco del prof. Biagi. Pesa fortemente nel dibattito sul lavoro il risultato referendario letto da forze politiche e sindacali minoritarie come l’affermazione di tutte le loro posizioni, comprese quelle di opposizione alle riforme del lavoro. D’altro canto il perno dell’opposizione alle riforme istituzionali è stato il collante di molte proteste anti-governative, egemonizzato dalle posizioni populistiche grilline cui si sono aggiunti tutti i gruppi e gruppuscoli che vedevano così l’occasione di far emergere un’opposizione alla scelta riformista operata dal governo.
Per quanto riguarda in particolare l’attuazione del Jobs Act, con il no si è cancellata la riforma di parte del titolo quinto e quindi le competenze relative a politiche del lavoro e formazione sono rimaste regionali. Ciò pone qualche problema all’architettura prevista per l’attuazione delle politiche attive del lavoro e al decollo dell’Agenzia nazionale che deve attuarle. Ma mentre risulta chiaro che per chi, pure propugnatore del sì, in ogni caso porta oggi avanti la riforma con forme di coordinamento e coinvolgimento delle regioni, lo schieramento avverso non ha nessuna proposta alternativa. L’esigenza di introdurre politiche attive è presente a tutti gli attori, ma si rischia di perdere molto tempo per opposizioni pregiudiziali verso le misure attuative in attesa che vi sia da parte del coordinamento delle regioni l’elaborazione di una linea propositiva e non solo ostruzionistica.
L’ostruzionismo provoca peraltro il risultato di lasciare isolate le regioni che hanno già sviluppato sistemi di eccellenza e giustifica la stragrande maggioranza di territori dove prevale l’inerzia completa. Magari poi usata per operazioni politiche demagogiche di richiesta di ulteriori fondi per proseguire in politiche passive e non avviare mai scelte per lo sviluppo economico locale.
Di fronte a tale ritardo istituzionale, le forze politiche principali appaiono incapaci di operare scelte utili a porre in evidenza come i propri programmi abbiano più punti in comune di quanto emerga dalle contrapposizioni. Escludendo la proposta grillina di salario sociale, tutte le altre forze concordano sulla necessità di realizzare una rete di servizi che prendono in carico chi ha bisogno di lavorare. La rete, formata da operatori pubblici e privati, prende in carico le persone, ne definisce un percorso formativo e cerca nuovi inserimenti lavorativi. I servizi saranno pagati sulla base di costi standard e a risultato come nei migliori modelli europei.
Vi è la necessità di rendere operativa una governance capace di coinvolgere tutti gli attori sociali e gli operatori dei servizi al lavoro. Una governance partecipativa e non gerarchica, perché deve favorire scelte comuni e il fare rete fra tutti gli attori. Perché ciò possa avvenire è però indispensabile un passo avanti da parte di tutte le rappresentanze sociali, sia dei sindacati dei lavoratori che delle rappresentanze padronali.
In primo luogo, si deve abbandonare la logica concertativa e corporativa che trasforma ogni sede di confronto in tavolo di spartizione di risorse. Ciò che serve per dare una svolta ai servizi per il lavoro è un confronto di merito dove il più bravo non è chi contratta il meglio per la propria organizzazione, ma chi propone il meglio per tutti.
Il rischio insito nella scadenza dei referendum richiesti dalla Cgil è solo in parte depotenziato dalle decisioni di ammissibilità dalla Corte costituzionale. Certo, aver tolto di mezzo il quesito sull’articolo 18 ha facilitato, se ve ne sono le condizioni politiche, la ricerca di soluzioni attraverso interventi legislativi e regolamentativi. Fra il voler abolire i voucher, posizione fuori dal tempo o della logica, e interventi per correggerne gli abusi vi è tutto lo spazio per regolamentarli e riportarli alla funzione positiva che possono svolgere.
Resta però al fondo una svolta che solo pochi soggetti stanno compiendo. Il passaggio culturale necessario è quello di adeguare gli strumenti di tutela al mutamento avvenuto nel lavoro per le trasformazioni in atto nella struttura produttiva. Il ritardo del nostro Paese consiste nel fatto che si lavora ancora in pochi e pochi concludono il ciclo formativo adeguato. Poco capitale sociale e scarsamente applicato indicano il deficit di fondo che determina anche la bassa produttività del nostro sistema economico.
L’approccio non può essere quello di nuovi diritti. La confusione su questo punto è sovrana. Il diritto di fondo da affermare è quello al lavoro. Sono da ripensare e innovare le tutele del lavoro, ossia come, in un sistema dove la vita sarà caratterizzata da più lavori e anche professioni diverse, si manterranno le tutele che hanno caratterizzato il periodo della produzione industriale ma declinate in forme diverse. Il nuovo articolo 18 del lavoro sarà dato dall’occupabilità permanente delle persone. Il ruolo della formazione sarà quindi centrale non solo prima di avviare la fase lavorativa della vita, ma durante tutto l’arco della vita lavorativa.
Allo stesso tempo il divario storico che caratterizza il rapporto scuola-lavoro nel nostro Paese è oggi un macigno non più sopportabile. Pesa sui giovani per l’abbandono scolastico, pesa sulle imprese che non trovano le professionalità richieste. L’avvio del sistema duale per tutti i percorsi scolastici e di formazione professionale, l’adeguamento dell’apprendistato a ogni livello come possibile percorso di inserimento lavorativo di giovani provenienti da percorsi formativi, aprono nuove possibilità da sfruttare fino in fondo.
Queste sono le sfide che attendono sia le forze politiche che sociali che hanno a cuore il diritto al lavoro nei nostri tempi. Accantonare e superare le barriere ideologiche è indispensabile per chi vuole contribuire al bene comune. Dopo una fase di scontro vi è bisogno di una nuova disponibilità da parte di tutti al dialogo non per proporre il ritorno a un passato improponibile, ma per partecipare a definire un futuro comune.