I dati sul mercato del lavoro mostrano un Paese in cui è iniziata una discreta ripresa economica. Come sempre si può valutare pessimisticamente il bicchiere mezzo vuoto o entusiasmarsi per il mezzo pieno. I saldi presi a medio periodo indicano però che una ripresa del tasso di occupazione è stabile. Se vogliamo sottolinearlo, ed era un obiettivo dichiarato dalle riforme, in questa crescita sono aumentati i contratti “di qualità”. Termine molto sindacalese, ma che indica in questo caso contratti a tempo indeterminato o tempo determinato, tutti con piene tutele per i lavoratori. I casi di “precarietà” sono in calo e restano uno degli aspetti degenerativi nella Pubblica amministrazione e in quei settori dove le resistenze sindacali e la cecità della politica non hanno voluto intervenire con scelte che sposassero cambiamenti strutturali del lavoro con nuove forme di tutela per i lavoratori. Il caso dei voucher è un caso di scuola, di come false valutazioni hanno portato a cancellare uno strumento che estendeva tutele senza danneggiare nessuno.
Restano comunque, al di là degli aspetti contrattuali, i dati che confermano un costante miglioramento. All’interno pesano però gli squilibri storici e strutturali del mercato del lavoro italiano. La crescita del tasso di attività è trainata da lavoratori over 50. Ma qui l’effetto demografico (gli anziani sono e saranno sempre più numerosi dei giovani) gioca, assieme all’allungarsi dell’età pensionistica, un ruolo determinante. Restano indietro i cittadini del sud, i giovani e le donne.
Per quanto riguarda il mezzogiorno, abbiamo una situazione storica che richiede interventi strutturali. Le zone con presenza di un tessuto industriale hanno registrato risultati di crescita occupazionale, ma la struttura economica complessiva è ancora troppo dipendente dalla Pubblica amministrazione e paga i ritardi dell’applicazione della riforma e delle politiche di liberalizzazione di molti mercati. Senza interventi strutturali che permettano la creazione di un tessuto produttivo sganciato dai rapporti con le concessioni politiche, anche i nuovi servizi per il lavoro potranno fare poco. Investimenti per le infrastrutture, sostegno fiscale per investimenti privati e deburocratizzazione per favorire insediamenti produttivi sono da privilegiare, per il mezzogiorno, per sostenere e dare efficacia alle politiche attive del lavoro.
Un campo da cui partire potrebbe essere proprio quello delle regole del settore dell’istruzione e formazione professionale e dei servizi accreditati per il lavoro. Una scelta decisa a introdurre un sistema di centri di formazione finanziati sulla base dell’efficienza ed efficacia dei risultati occupazionali sarebbe un segnale di novità anche per rilanciare settori produttivi presenti nelle regioni del sud.
Per quanto riguarda i tassi occupazionali di giovani e donne, avremo dalle scelte del governo in tema di bilancio una svolta significativa. L’indicazione di abbattere il costo contributivo per le assunzioni di chi appartiene a questi due target di lavoratori può diventare una scelta innovativa reale. Interventi di questo tipo sono stati già fatti nel corso del tempo. Sono sempre state misure temporanee e talvolta sovrapposte che hanno creato incertezza e, quindi, hanno avuto scarsa efficacia. Ora pare che la decisone diventi invece strutturale.
Di fronte alla necessità di intervenire per abbassare il peso contributivo sul costo del lavoro si parte favorendo i due target più svantaggiati (dare di più a chi ha meno) con un bonus che le persone porteranno in dote anche in presenza di cambio di occupazione. La decontribuzione sarà poi estesa a tutti i lavoratori, ma potrà rimanere anche modulata in modo diverso per favorire le assunzioni dai target più svantaggiati. Si opera così una scelta che, assieme alle altre novità strutturali introdotte dal Jobs Act, permette di governare meglio i flussi occupazionali aumentando gli strumenti permanenti con cui intervenire a correggere eventuali squilibri del mercato del lavoro.
L’avvio di queste nuove misure dovrebbe portare ad avere anche un maggiore coraggio nel compiere altre scelte in modo strutturale. Nel caso dell’occupazione giovanile è possibile operare una riflessione vista la disponibilità dei dati provenienti dall’esperienza di Garanzia giovani. Confrontando i dati di sette paesi dove si è realizzato il programma, emergono alcune anomalie italiane. In media, l’80% di chi ha finito il programma ha trovato lavoro, mentre in Italia ci fermiamo al 31%. L’apprendistato ha trovato applicazione per il 5% dei giovani coinvolti e la media ci vede appaiati agli altri paesi. La differenza è però data da un 11% di giovani italiani avviati a percorsi formativi contro un 4% della media generale e da un 54% di giovani in tirocinio contro il 13% della media europea. Garanzia giovani si presenta perciò nel nostro Paese come un grande programma di tirocini. Se quest’ultimi fossero tra gli strumenti usati in un percorso di proattivazione della persona finalizzato a un inserimento lavorativo e a uno sviluppo integrale della persona sarebbe stato un successo. Il risultato è invece dovuto alle distorsioni introdotte da scelte regionali finalizzate a favorire il mero inserimento, a basso costo, in percorsi brevi di prova di lavoro, senza assicurare poi una nuova presa in carico delle persone coinvolte. Abbiamo così sprecato un’occasione importante.
Nella nuova fase che si apre con il rifinanziamento del programma Garanzia Giovani si deve avere il coraggio di porre al centro i percorsi di apprendistato. I risultati occupazionali e formativi saranno sicuramente migliori. Soprattutto usando i tre livelli formativi associati all’apprendistato avremmo un beneficio strutturale per dare una svolta positiva al rapporto scuola-lavoro che, oggi, penalizza l’occupabilità dei giovani nel nostro Paese.