Tra gli strumenti messi in campo dal Jobs Act per il sostegno al mercato del lavoro suscita particolare interesse (anche se, sino a oggi, è stato utilizzato in maniera insufficiente) il cosiddetto assegno di ricollocazione, previsto e regolato dall’art. 23 del d.lgs. n. 150/2017. Si tratta di una misura di politica attiva che presenta molte affinità con quelle già sperimentate, con buoni risultati, da alcune Regioni italiane (in particolare la Lombardia). Il suddetto art. 23 consente al lavoratore disoccupato, che abbia fruito di un trattamento di disoccupazione di durata non inferiore a 4 mesi, di ottenere detto assegno, spendibile al fine di ottenere un servizio di assistenza intensiva nella ricerca di lavoro da parte dei Centri per l’impiego o delle Agenzie di lavoro accreditate a svolgere detta attività, ai sensi dell’art. 12 dello stesso decreto n. 150.
Il lavoratore è libero di scegliere il Centro o l’Agenzia cui richiedere detto servizio. Il soggetto scelto, a sua volta, sarà incentivato a offrire un servizio di qualità, in quanto l’assegno gli verrà attribuito nel suo intero importo solo in caso di effettiva ricollocazione del lavoratore stesso (in caso contrario, gli verrà riconosciuto soltanto un ammontare minimo). La Legge di bilancio per il 2018 ha esteso l’ambito di applicazione di tale strumento, consentendone l’utilizzazione anche in casi nei quali il lavoratore non è ancora disoccupato, ma è comunque “a rischio” di perdere il lavoro, in quanto coinvolto in una procedura di cassa integrazione guadagni straordinaria, per crisi o riorganizzazione. È infatti noto che, spesso, tali procedure costituiscono, per non pochi dipendenti, l’anticamera del licenziamento.
Per tale ragione, l’art. 24-bis del d.lgs. n. 148 del 2015, introdotto dall’art. 1, comma 136, della l. n. 205/2017, ha previsto che, nei casi di riorganizzazione o di crisi aziendale, per i quali non sia stato espressamente previsto il completo recupero occupazionale, la procedura di consultazione sindacale che precede la richiesta di intervento della cassa integrazione possa concludersi con un accordo, il quale preveda un piano di ricollocazione, con l’indicazione degli ambiti aziendali e dei profili professionali a rischio di esubero.
Fermo restando il normale iter della richiesta di intervento della cassa, entro 30 giorni dalla sottoscrizione di tale accordo i lavoratori che rientrano in tali ambiti o profili dichiarati a rischio di esubero possono richiedere all’Anpal l’attribuzione anticipata del suddetto assegno di ricollocazione. In tal modo, gli interessati possono “spendere” l’assegno già in costanza di trattamento Cigs, e dunque ben prima di perdere il lavoro, per ottenere dal Centro per l’impiego o dall’Agenzia privata scelta il servizio di assistenza intensiva del quale si è detto, che avrà una durata pari a quella del trattamento di integrazione salariale e comunque non inferiore a 6 mesi, e che sarà appunto finalizzato alla ricerca di un nuovo posto di lavoro. Il servizio è altresì prorogabile di ulteriori 12 mesi nel caso in cui, entro il termine del trattamento straordinario di integrazione salariale, non sia stato utilizzato l’intero ammontare dell’assegno.
L’accordo sindacale può anche prevedere la partecipazione dei Centri per l’impiego o delle Agenzie accreditate per lo svolgimento di attività di mantenimento e sviluppo delle competenze, da realizzare con l’eventuale concorso dei Fondi interprofessionali per la formazione continua, di cui all’art. 118, l. n. 388/2000.
A differenza dei disoccupati, i lavoratori in cassa integrazione che fruiscono del servizio di assistenza collegato all’assegno di ricollocazione non hanno l’obbligo di accettare un’eventuale offerta di lavoro “congrua”. Gli stessi, quindi, possono sempre scegliere liberamente se rimanere alle dipendenze dell’impresa che sta fruendo dell’integrazione salariale, o se cogliere le eventuali opportunità di occuparsi altrove. Nel contempo, però, la ricerca del nuovo posto di lavoro viene fortemente incentivata. E invero, il lavoratore che accetti l’offerta di un datore di lavoro, la cui impresa non presenta assetti proprietari sostanzialmente coincidenti con quelli dell’impresa che lo ha collocato in Cig, innanzitutto beneficia di un’esenzione dall’imponibile ai fini Irpef sulle somme percepite in dipendenza della cessazione del rapporto in essere, sino al limite massimo di 9 mensilità della retribuzione. In aggiunta, lo stesso percepisce un contributo mensile pari al 50% del trattamento Cigs che gli sarebbe stato altrimenti corrisposto.
Nel contempo, il datore di lavoro che assume tale lavoratore fruisce dello sgravio del 50% sui contributi (ma non sui premi Inail) a suo carico, nel limite massimo di 4.030 euro su base annua (detto limite sarà annualmente rivalutato in base agli indici Istat). Nel caso di assunzione a tempo indeterminato, detto sgravio è riconosciuto al datore di lavoro per 18 mesi; in caso di assunzione a termine la durata è di 12 mesi; se però il lavoratore viene stabilizzato, il beneficio è prorogato di ulteriori 6 mesi.
Sembra, quindi, che lo strumento messo a disposizione del legislatore possa davvero dare buoni frutti. A condizione, però, che il contesto economico e produttivo sia davvero in grado di accogliere i lavoratori interessati. E sempre che questi ultimi siano davvero “interessati”, e cioè disponibili a rioccuparsi prima possibile; e dunque non “preferiscano” fruire di tutte le possibili mensilità di cassa integrazione prima, e di indennità di disoccupazione (Naspi) poi: eventualità, questa, che, come insegna l’esperienza, in alcuni contesti si presenta tutt’altro che remota… soprattutto se nel frattempo c’è la possibilità di cumulare le prestazioni previdenziali con il provento di qualche “lavoretto” in nero.