IL CASO/ Si possono registrare le conversazioni con i colleghi e il datore di lavoro?

- Angelo Chiello

È legittimo il comportamento del lavoratore che registra le conversazioni effettuate con i colleghi o con il datore di lavoro a loro insaputa? ANGELO CHIELLO

Lavoro_Ufficio_Cooperazione_Pixabay Pixabay

È legittimo il comportamento del lavoratore che registra le conversazioni effettuate con i colleghi o con il datore di lavoro a loro insaputa? La registrazione non lede il diritto alla privacy e alla riservatezza? Quella di registrare le conversazioni all’insaputa dell’interlocutore è una prassi sempre più diffusa, favorita anche dal fatto che portiamo sempre con noi cellulari e smartphone che permettono di registrare senza dare nell’occhio, alla quale sempre più spesso i lavoratori ricorrono al fine di precostituirsi la prova di condotte asseritamente illecite da parte dei colleghi o del datore di lavoro. L’esigenza del diritto di difesa prevale sul diritto alla privacy? Sulla questione si è recentemente pronunziata la Corte di Cassazione con sentenza n. 11322 del 10 maggio 2018. 

Il caso sottoposto alla Suprema Corte era quello di un lavoratore che, per difendersi da alcune contestazioni disciplinari mossegli dal datore di lavoro, aveva consegnato una chiavetta USB contenente le registrazioni di conversazioni con altri dipendenti effettuate sul luogo di lavoro, in orario di lavoro e a insaputa dei colleghi. Ritenuto, tale comportamento, una “gravissima violazione della legge sulla privacy” di tale gravità da “ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario”, il datore di lavoro avviava un nuovo procedimento disciplinare nei confronti del dipendente e lo licenziava per giusta causa. Il licenziamento veniva dichiarato legittimo dal Tribunale di Vasto, sul presupposto della violazione della normativa sulla privacy da parte del lavoratore, e illegittimo dalla Corte di Appello di L’Aquila “per sproporzione rispetto ai fatti contestati”. La questione è stata quindi sottoposta al vaglio della Corte di Cassazione.

Al fine di valutare la liceità o meno della condotta del dipendente licenziato, la Cassazione richiama la normativa sulla privacy e la giurisprudenza in materia. In particolare, la Suprema Corte osserva che il trattamento dei dati personali può essere eseguito anche in assenza di consenso della persona interessata se è volto a far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria, o per svolgere le investigazioni difensive previste dalla legge n. 397/2000, a condizione che i dati siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento. 

Come già aveva rilevato la Suprema Corte in precedenti pronunciamenti, si tratta di “bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza da una parte e della tutela giurisdizionale del diritto dall’altra e pertanto di contemperare la norma sul consenso al trattamento dei dati con le formalità previste dal codice di procedura civile per la tutela dei diritti in giudizio” (Cass. S.U., n. 3034/2011). In linea con tale impostazione e in ambito più strettamente lavoristico, è stato quindi precisato che la registrazione fonografica di un colloquio tra presenti, se operata da persona che ne sia partecipe, costituisce prova documentale ammissibile sia nel processo civile che in quello penale (Cass. n. 27424/2014 e Cass. pen. n. 31342/2011). 

Riprendendo le argomentazioni della Corte territoriale, la Cassazione ha quindi osservato che, nel caso sottoposto alla sua attenzione, il dipendente licenziato aveva adottato tutte le cautele necessarie per evitare il diffondersi delle registrazioni “incriminate” (avendole consegnate su pennetta USB solamente a un delegato dell’azienda) e che l’utilizzo delle registrazioni era stato determinato solamente dall’esigenza di “tutelare la propria posizione all’interno dell’azienda, messa a rischio da contestazioni disciplinari non proprio cristalline” e dall’esigenza di “precostituirsi un mezzo di prova”. La Suprema Corte ha quindi ritenuto operante la deroga al principio del preventivo consenso, il dipendente essendosi limitato a esercitare il proprio diritto di difesa. Di qui l’illegittimità del licenziamento; e di qui la reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro. Correggendo la conclusione alla quale era pervenuta la Corte di Appello, la Cassazione ha infatti osservato che la legittimità della condotta del dipendente licenziato comporta tout courtl’insussistenza del fatto contestato”, e quindi l’applicazione della tutela prevista dall’art. 18, comma 4, della l. n. 300/1970, e non quella, di carattere esclusivamente risarcitorio, prevista dal successivo comma quinto, 

La questione non è affatto chiusa. Già in precedenza la Cassazione aveva ritenuto idonea a fondare il licenziamento la condotta del dipendente consistente “nella registrazione della conversazione tra presenti all’insaputa dei conversanti e nell’impossessamento di un’e-mail non destinata alla visione” del dipendente, circostanze “ritenute entrambe di per sé in contrasto con gli standard di comportamento imposti dal dovere di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c. e da una condotta improntata a buona fede e correttezza e tali da minare irreparabilmente il rapporto fiduciario” (Cass. 8.8.2016 n. 16629). Prima ancora, nel 2013, la Cassazione aveva ritenuto una “evidente violazione del diritto alla riservatezza dei suoi colleghi” la condotta del dipendente consistita nella “registrazione e diffusione delle conversazioni intrattenute in ambito strettamente lavorativo alla presenza del primario ed anche nei loro momenti privati svoltisi negli spogliatoi o nei locali di comune frequentazione, utilizzandole strumentalmente per una denunzia di mobbing rivelatasi, tra l’altro, infondata” (Cass. 21.11.2013 n. 26143). 

A complicare ulteriormente la situazione è intervenuta, sei giorni dopo il deposito della sentenza n. 11322 del 10.5.2018, una nuova ordinanza con la quale la Cassazione afferma che “la registrazione di conversazioni tra presenti all’insaputa dei conversanti configura una grave violazione del diritto alla riservatezza, con conseguente legittimità del licenziamento intimato” (Cass. 16.5.2018 n. 11999). Evidentemente, quel punto di equilibrio tra le contrapposte istanze della riservatezza da una parte e della tutela giurisdizionale del diritto dall’altra è ancora da conquistare.





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