POCHI LAUREATI/ Perché quel pezzo di carta non serve più a lavorare?
Se mediamente in Europa gli occupati con titolo di studio terziario sono il 34% del totale, in Italia ci si ferma al 22%. Ma l’innovazione richiede più formazione. GIANCAMILLO PALMERINI

Prima di poter avanzare qualsiasi analisi sul mercato del lavoro italiano (ma non solo), sarebbe sempre opportuno evidenziare alcuni elementi che caratterizzano, comunque la si pensi, il mondo che stiamo vivendo.
I contesti produttivi sono in continuo, e rapido, divenire, estremamente mutevoli nel tempo, e con questi lo sono anche le esigenze e i fabbisogni formativi di chi decide di assumere lavoratori più o meno giovani. Allo stesso tempo, i processi di cambiamento e riorganizzazione del sistema produttivo, accelerati dalla recessione e dalle politiche del rigore e dei tagli alla spesa pubblica degli ultimi decenni, stanno significativamente modificando il ventaglio delle opportunità occupazionali.
Si pensi, poi – tanto per dare un’idea sull’incertezza del futuro, dovuta alla complessità dei processi di cambiamento e alla velocità con cui essi si realizzano su scala globale, del mondo che stiamo vivendo – che secondo un “recente” rapporto del World Economic Forum del 2016, intitolato “The future of Job”, il 65% dei bambini che oggi vanno a scuola, una volta diplomati o laureati svolgeranno dei lavori che adesso ancora non esistono e che possiamo (forse) solo provare a immaginare.
Possiamo quindi trascurare, in questo contesto, il tema, cruciale nel nostro Paese, della difficile transizione dei giovani dal mondo dell’istruzione e formazione al mercato del lavoro, considerando quanto, indipendentemente dalle dinamiche del ciclo economico, questo renda difficoltoso l’incontro fra domanda e offerta?
Ha provato a riflettere su questo tema l’Irpet con una pubblicazione che indaga il complicato rapporto laureati e lavoro in Toscana, ma che, certamente, offre utili spunti anche per leggere il fenomeno su tutto il territorio nazionale. Emerge, ad esempio, come nel mercato del lavoro italiano si debba rilevare un minore impiego di laureati rispetto alle altre principali economie “avanzate”. Si pensi che, se mediamente in Europa gli occupati con titolo di studio terziario sono il 34% del totale, questo dato in Italia si ferma al 22%. La situazione migliora nelle professioni ad alta qualifica, dove ovviamente la percentuale di laureati cresce, ma si rimane tuttavia al di sotto del 50%.
La crisi economica, le maggiori difficoltà delle famiglie, ma anche, probabilmente, la convinzione che la laurea non costituisca più un investimento nel proprio futuro professionale, hanno portato, in questo quadro, a un calo del numero delle immatricolazioni.
In questa prospettiva gioca un ruolo fondamentale, infatti, la percezione diffusa che un elevato titolo di studio non rappresenti, ahimè, più una garanzia di mobilità sociale. Sebbene questo non sia, in assoluto, confermato dai dati, è indubbio che le retribuzioni dei laureati siano, in molti Paesi nostri competitor, significativamente più alte.
Cantava, in un suo memorabile pezzo, il cantautore di Pavana che un laureato conta più d’un cantante. Probabilmente aveva ragione, anche se la politica, come accade spesso in Italia, ci descrive un mondo al contrario dove, ai tempi della società della conoscenza, a guidare il governo vi sono due “fuoricorso” indubbiamente di successo.
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