Sabato scorso si è tenuta la terza giornata della scuola di formazione politica “Conoscere per decidere” promossa a Milano da alcune importanti fondazioni e associazioni culturali. Il tema al centro della discussione era la valutazione relativa alla crisi della democrazia e le ipotesi di risposta a partire da un nuovo impulso sussidiario, per rimettere in moto le forze sociali capaci di innescare nuovi rapporti generativi di sviluppo economico e sociale. Negli interventi dei diversi relatori (prof. Ornaghi, prof. Bassanini e prof.ssa D’Amico) è emerso come centrale il rapporto fra governabilità e rappresentatività.
È la crisi e l’evoluzione dei due termini e delle loro relazioni che oggi caratterizza la crisi delle strutture democratiche e statuali del nostro Paese. Ciò mette in crisi l’insieme portante del sistema costituzionale italiano che ha sì riconosciuto il valore della partecipazione popolare al potere decisionale, ma fissando i paletti invalicabili della Costituzione a difesa dei diritti individuali e collettivi. È facile però constatare come il procedere delle ideologie sovraniste e populiste sta indebolendo quanto costruito in questi decenni anche per il degrado che istituzioni preposte a difendere e attuare quanto previsto della Costituzione non sono più in grado di fare o di attuare con credibilità e trasparenza.
Basti pensare al fatto che siamo stati chiamati a votare per riforme istituzionali che avevano al centro l’esigenza di dare più potere decisionale al potere esecutivo, ma, proprio per la perdita di rappresentatività del sistema politico, sono sempre state respinte. Il risultato è davanti agli occhi di tutti. Una situazione bloccata e il tentativo di intervenire con riforme solo delle leggi elettorali comporta un crescente distacco dalla partecipazione attiva dello stesso corpo elettorale.
L’impatto della globalizzazione, dei mutamenti indotti dall’avvento di nuove tecnologie basate sulla intelligenza artificiale e il presentarsi di nuove diseguaglianze che attraversano la società, formano la base per spinte sociali dettate da rabbia e assenza di prospettive. Emerge così che la nuova dialettica fra governabilità (capacità di decisione) e rappresentatività (portatori di interessi e di soluzioni) non è un astratto dibattito fra costituzionalisti, ma riguarda molto da vicino la capacità delle rappresentanze sociali (sindacati, rappresentanze di impresa, terzo settore, corpi intermedi in generale) di avere sedi dove ridisegnare gli strumenti di protezione sociale che hanno caratterizzato la capacità di crescita equilibrata delle società occidentali.
Atteggiamenti di chiusura nazionalista, di rifiuto antitecnologico verso le innovazioni produttive, il ricorso a un’ulteriore crescita del debito pubblico portano ad affossare i sistemi economici invece di avviare un rilancio capace di creare le risorse necessarie per una nuova distribuzione di opportunità sociali ed economiche. Per fare ciò vi è bisogno di una base di riconoscimento reciproco fra rappresentanze politiche, funzioni statuali e rappresentanze sociali. Abbandonato per sempre il consociativismo corporativo degli anni finali della prima repubblica e che ha caratterizzato la fase più negativa della seconda, vi è bisogno di passare a un nuovo patto sociale. Il fulcro deve essere la condivisione di obiettivi di bene comune e lo scambio può essere quello fra libertà di apportare ognuno il proprio contributo con la responsabilità di rispettare i percorsi comuni individuati.
Chi in questi anni ha cercato, spesso in solitudine, di trovare nuove soluzioni ai problemi sociali che si ponevano, con la sperimentazione di nuovi servizi e non solo attraverso la rivendicazione, è oggi più attrezzato per avviare una nuova fase intorno al ridisegno del patto sociale che sta dietro al disegno di welfare tradizionale, con nuove e credibili proposte contro le nuove povertà sociali.
I testimonial di esperienze concrete (Ugo Finetti per il modello del riformismo ambrosiano, Giorgio Gori sindaco di Bergamo e Gigi Petteni dirigente della Cisl) hanno indicato così con esempi operativi che la società organizzata può oggi essere la fonte per un ridisegno delle regole politiche adeguate a rispondere alle nuove fratture sociali e anche istituzionali.
Un esempio viene anche dall’Europa. Il Comitato economico e sociale europeo ha approvato a schiacciante maggioranza la proposta per una direttiva quadro europea sul reddito minimo. Il documento chiede alla Comunione europea di adottare “un quadro Ue vincolante che stabilisca un reddito minimo adeguato in tutta Europa, adattato al tenore di vita di ciascun stato membro”. L’eccesso di posizioni antieuropeiste che si presenta in Italia ha oscurato la notizia e soprattutto ha così eluso la problematiche che Cese-Eesc ha messo in rilievo.
Eurostat indica nel 22,5% la popolazione Ue a rischio di esclusione sociale e il 9,5% dei lavoratori a rischio povertà. Da qui la spinta per un provvedimento di lotta alla povertà comune per gli europei, ma rispettando i diversi livelli di reddito nazionali. Il comitato sociale però metteva in rilievo che è il lavoro che dà cittadinanza, che il reddito garantito deve essere finanziato senza creare nuovo debito e assicurando una rete di servizi che fornisca percorsi inclusivi attraverso l’autonomia lavorativa.
Insomma, dietro a una proposta coraggiosa vi è una visione precisa di rilancio del progetto di unità europea e, insieme a ciò, una sfida alle forze politiche e sociali, perché sappiano tornare a darsi una rappresentatività reale per assicurare proposte di governabilità all’altezza dei tempi.