L’emendamento alla manovra 2019 al pacchetto maternità sta facendo più discutere della scelta del nome di un figlio. Che la donna incinta possa decidere di lavorare sino al giorno del parto (con l’ok del medico e garantendosi comunque cinque mesi di astensione retribuita) fa nascere pensieri anche in chi coinvolto direttamente non è. Del resto, la gravidanza è una condizione fisiologica, non patologica. Quindi è logico nasca il dubbio dell’effettiva necessità della quarantena dal lavoro.
Io, se m’immagino incinta e di lavorare fino al giorno del parto, vedo subito dei gran vantaggi.
Anzi, il primo a coglierli sarebbe mio marito. Sì, quello che a suo tempo – quand’ero incinta di otto mesi e mezzo – ho chiamato isterica per ben cinque volte mentre era al lavoro, per farmi catapultare di corsa in ospedale. Tutti falsi allarmi. Ecco, se anziché a casa, fossi in ufficio, mi farei accompagnare direttamente da qualcuno già pronto lì: il vicino di scrivania, il mio superiore. Ne sarebbero… entusiasti, lo sento.
Anche io non me la passerei male. Sarei coccolata e straviziata; chi vorrebbe innervosire una donna – già ormonizzata a mille di suo – pronta a esplodere da un momento all’altro? Facilmente sarei assecondata in cuscini per i piedi, voglie di involtini cinesi, precedenza alle toilette. E’ vero che ho sempre declamato la parità dei sessi anche in azienda – pari trattamento, pari opportunità tra colleghi e colleghe – ma qui potrei sicuramente chiudere un occhio; e comunque regalerei una straordinaria opportunità di team-building ai miei colleghi. Anche loro quindi, tutti… entusiasti.
Senza trascurare il capo. Quando a suo tempo gli ho detto che sarei stata a casa a partire da un giorno preciso di novembre, lui si era tutto organizzato per tempo. La macchina del reparto è andata avanti senza contrattempi. Oggi invece, se decidessi di bazzicare la postazione fino all’ultimo, gli regalerei un po’ di brivido d’incertezza, di novità, ogni settimana una sorpresa. Chi può dire quale sarà il mio ultimo giorno? Potrebbe contare su di me per quarantott’ore o trentacinque giorni: lo allenerei alla flessibilità, la gestione dell’imprevisto, l’adattamento fulmineo. Un’altra situazione gravida di opportunità per l’azienda, da… aumento di stipendio oserei suggerire.
Insomma, da un “certo” punto di vista, scegliere di prolungare il lavoro può rivelarsi… “una convenienza”.
Iperboli a parte, bisogna anche vedere come la prendono gli altri, quelli che in maniera indiretta sono comunque impattati da questo mese travagliato. In ogni caso, per la donna – fisiologico che sia – passare direttamente dal lavoro alla scrivania al laborem del lettino ostetrico non è una passeggiata da poco. Valutato ex-post, uno stacco di tempo programmato nel mezzo potrebbe essere più liberatorio di una epidurale; per una futura mamma, ma anche per tutti.