Il presidente Sergio Mattarella ha firmato il decreto legge sul reddito di cittadinanza e le nuove misure in tema di pensioni. Ora si attende solo la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Poi inizieranno le procedure di conversione partendo dalla lettura del Senato. Del contenuto del decreto si è parlato a lungo e con tanto anticipo. Nelle ultime settimane – reso noto il testo – sono stati commentati anche taluni aspetti minori, dotati tuttavia di una certa importanza per i soggetti interessati. In particolare sono state introdotte norme per il restyling delle storie contributive attraverso l’istituto del riscatto: una procedura che consente al lavoratore di ottenere, a proprie spese, il riconoscimento contributivo dei periodi per i quali non risulti coperto sul piano previdenziale.
A differenza della contribuzione figurativa sempre gratuita (servizio militare, assenza per maternità, ecc.) e della ricongiunzione tra periodi maturati in diversi regimi (che può essere onerosa o gratuita) o del cumulo gratuito, il riscatto è sempre a titolo oneroso, ma è agevolato fiscalmente perché le somme versate agli enti di previdenza possono essere dedotte dal reddito, così come avviene con i contributi obbligatori. Anche in questa materia si è manifestata la vocazione “pacifista” del Governo: si parla infatti di “pace contributiva” in parallelo con la “pace fiscale”. Mentre in quest’ultimo caso viene consentito dalla Legge di bilancio di “risanare” adempimenti di carattere fiscale non compiuti correttamente, nella pace contributiva, tramite riscatto, si tratta di attribuire ex post “valore previdenziale” a periodi – non lavorativi – durante i quali non era dovuto o riconosciuto alcun obbligo contributivo effettivo o figurativo.
Nel decreto lo scopo di queste misure è rivolto innanzitutto a recuperare “anzianità contributiva” da far valere nell’ambito dei requisiti necessari a ottenere la pensione o a implementare, per i periodi in regime contributivo, il relativo montante. Procedendo oltre, con il titolo “Facoltà di riscatto di periodi non coperti da assicurazione” l’articolo 20 prevede – in via sperimentale, per il triennio 2019-2021 – che i lavoratori dipendenti privati e pubblici, gli autonomi e i parasubordinati, privi di anzianità contributiva al 31 dicembre 1995 e non già titolari di pensione abbiano la facoltà di riscattare, in tutto o in parte, i periodi antecedenti all’entrata in vigore del decreto compresi tra la data del primo e quello dell’ultimo contributo comunque accreditato nelle suddette forme assicurative: periodi, quindi, non soggetti a obbligo contributivo e non già coperti da contribuzione, comunque versata e accreditata, presso regimi di previdenza obbligatoria.
Detti periodi possono essere riscattati nella misura massima di cinque anni, anche non continuativi. Non a caso il periodo da riscattare deve essere compreso tra il primo e l’ultimo contributo versato dal soggetto. L’operazione di restyling non è consentita allo scopo di rientrare nei requisiti che danno accesso a quota 100 ed è fissato il limite anagrafico di 45 anni. Come abbiamo accennato il riscatto è oneroso secondo le regole vigenti (si fa riferimento alla retribuzione percepita) ed è detraibile fiscalmente in misura del 50%. Il versamento dell’onere può essere effettuato ai regimi previdenziali di appartenenza in unica soluzione ovvero in massimo 60 rate mensili, ciascuna di importo non inferiore a 30 euro, senza applicazione di interessi per la rateizzazione. Un caso particolare riguarda il riscatto della laurea. Con le regole previste nel decreto, limitatamente ai soggetti che abbiano i requisiti sopra ricordati (tra cui meno di 45 anni), è stato calcolato un onere occorrente per il riscatto pari d un contributo, uguale per tutti, di 5.241,30 euro per ogni anno di studio.
La Fondazione dei consulenti del lavoro ha sviluppato alcuni esempi. Un lavoratore con il regime contributivo, che guadagna 40.000 euro, avrebbe pagato, con le regole previgenti, circa 13.200 euro l’anno, mentre se chiede il riscatto ora dovrebbe pagare il 60% in meno. L’effetto è legato alla nuova modalità di calcolo introdotta nel decreto. La norma prevede che “ai fini del periodi da valutare con il sistema contributivo” (in pratica a partire dal 1996 quando questo è stato introdotto), il lavoratore potrà decidere di attivare il riscatto con lo sconto “ai soli fini dell’incremento dell’anzianità contributiva”.
Come si arriva alla cifra di 5.241,30 all’anno? Il calcolo è abbastanza complesso, nel senso che si fa riferimento al minimo imponibile contributivo di commercianti e artigiani, a cui si applica l’aliquota prevista per i lavoratori dipendenti. Pertanto, calcolando l’aliquota del 33% sul minimo imponibile di 15.882,81 euro, previsto per il 2019, si determina l’importo di 5.241,30 euro. In pratica il conto varia tra i 15.000 euro di una laurea breve e i 25.000 di un corso di laurea completo. Il risparmio è maggiore quanto più lo è la retribuzione percepita. Se si considera un lavoratore con il regime contributivo il riscatto costerebbe 9.900 euro l’anno con un reddito di 30.000 euro, 14.850 euro con un reddito da 45.000 euro, 19.800 euro con un reddito di 60.000 euro. Si tratta comunque di un investimento che resta importante.
E a questo punto emerge il vizio “statalista” del provvedimento. Vale davvero la pena di destinare le proprie risorse a questo scopo oppure sarebbe meglio diversificare la tutela della propria vecchiaia attraverso un investimento in una forma di risparmio previdenziale a capitalizzazione? Non si dimentichi mai che il sistema obbligatorio, anche se in regime contributivo, resta finanziato a ripartizione (ovvero i contribuenti attuali con i loro versamenti “pagano” le pensioni in essere con la promessa che altri contribuenti, in futuro, onoreranno gli impegni assunti nei loro confronti). Pertanto, i maggiori versamenti effettuati durante la vita attiva servono solo ad acquisire diritti per quando i lavoratori di oggi saranno pensionati domani. Ma le maggiori risorse sono impiegate seduta stante. All’appuntamento con la fatidica quiescenza i lavoratori che hanno effettuato i riscatti non troveranno ad attenderli (come se il sistema fosse a capitalizzazione) le risorse da loro versate, ma degli altri soggetti che se li prenderanno direttamente e obbligatoriamente in carico. Lo Stato farà da garante. Ma molto dipenderà dalle risorse allora disponibili.
Tutte queste considerazioni ci conducono a confermare la vocazione statalista del Governo anche in materia di pensioni. Non solo perché non è scritta una sola parola sulla previdenza privata complementare (sarebbe stato opportuno ridurre la tassazione dei rendimenti), ma soprattutto si cerca di sottrarre, a favore del sistema pubblico, risorse a essa prioritariamente destinate. L’articolo 21 prevede “l’esclusione opzionale dal massimale contributivo dei lavoratori che prestano servizio in settori in cui non sono attive forme di previdenza complementare compartecipate dal datore di lavoro”. Che cosa significa questa norma? Nel sistema contributivo – diversamente dal retributivo – è vigente un massimale retributivo e contributivo – ora superiore ai 100.000 euro lordi l’anno – oltre il quale non sono previsti prelievi a titolo previdenziale, né effetti sul livello della pensione. In parole povere non si paga né si incassa alcunché. La riforma Dini, che introdusse questa norma, incoraggiava, con misure fiscali, i contribuenti a destinare le quote eccedenti il massimale, alla previdenza complementare. Adesso – sia pure in modo opzionale – li si incoraggia a rientrare con tutta la loro retribuzione nel sistema pubblico.
Un’altra mazzata viene data alla retribuzione collegata alla produttività e di conseguenza al reddito corrente del lavoratore. Il comma 4 dell’articolo 20 recita, infatti, che “per i lavoratori del settore privato l’onere per il riscatto di cui al comma 1 può essere sostenuto dal datore di lavoro dell’assicurato destinando, a tal fine, i premi di produzione spettanti al lavoratore stesso”. In tal caso, è deducibile dal reddito di impresa e da lavoro autonomo e, ai fini della determinazione dei redditi da lavoro dipendente, rientra nell’ipotesi prevista per i contributi previdenziali e assistenziali versati dal datore di lavoro o dal lavoratore in ottemperanza a disposizioni di legge nonché per i contributi di assistenza sanitaria versati dal datore di lavoro o dal lavoratore a enti o casse aventi esclusivamente fine assistenziale in conformità a disposizioni di contratto o di accordo o di regolamento aziendale. In sostanza, non solo la contrattazione della produttività e del welfare aziendale non fa parte delle priorità dell’attuale Governo, ma le risorse a essa destinate al pari di quelle che potrebbero alimentare il secondo pilastro (ove non fosse già istituito in forma bilaterale) vengono sacrificate (alla faccia dello sviluppo della contrattazione di prossimità) sull’ara della nuova Santa protettrice nazionale: la pensione.