Le ultime settimane hanno drammaticamente dimostrato come costituisca un immenso sforzo il cercare di affrontare con i vecchi metodi i problemi del risanamento finanziario e dell’equilibrio dei bilanci pubblici. Con effetti che aggravano nel medio termine i problemi che si vogliono risolvere nell’immediato.
L’ultima manovra varata dal Governo italiano ne è la palese dimostrazione: si cerca di rimediare a un eccesso di spesa pubblica aumentando le tasse a carico dei cittadini e delle imprese, con il risultato di frenare ancora di più un’economia che già ora stenta a crescere e di accrescere il disagio sociale dei cittadini, in particolare delle famiglie. In una drammatica spirale negativa: più tasse portano meno crescita e quindi minore gettito fiscale a cui si risponde imponendo nuove tasse e così via.
È allora arrivato il momento di costringere la politica a ripensare se stessa, di costringere lo Stato a rifondarsi sulla concretezza della democrazia e della partecipazione. Un obiettivo sicuramente temerario. Perché gli ultimi anni hanno abbondantemente dimostrato come la maggiore efficienza della politica sta in primo luogo nel difendere se stessa, nell’impedire tutte quelle riforme (per esempio, la riduzione del numero dei parlamentari) che rientrano sempre nel novero delle promesse, ma mai in quello delle iniziative.
Eppure proprio questo momento di crisi appare lo scenario ideale se non per la rivoluzione, almeno per iniziare a discutere sui temi di fondo della statualità non solo nelle astratte teorie della filosofia politica, ma anche e soprattutto nel cercare un cammino che magari a piccoli passi porti a una nuova realtà: uno Stato in cui i cittadini si riconoscano, uno Stato che sia al servizio delle esigenze collettive, uno Stato che non sia staccato, lontano, talvolta anche nemico delle persone che lo compongono.
La teoria dello Stato è antica quanto il pensiero dell’uomo, basti pensare alle tesi di Aristotele e Platone sulla politica, e proprio per questo ha bisogno di compiere dei nuovi passi in avanti per rispondere alle esigenze di una società complessa, globalizzata, con grandi potenzialità di conoscenza, ma anche con fortissime disuguaglianze. Può forse stupire che l’invito dalla riflessione venga da un sovrano illuminato, come il principe regnante del Liechtenstein, Hans-Adam II, ma il suo libro “Lo Stato nel terzo millennio” (Ed. Istituto Bruno Leoni, pagg. 250, euro 20) costituisce una delle più lucide analisi sui limiti dello Stato contemporaneo e sulle possibili e necessarie vie d’uscita dalla crisi attuale.
Con una visione che va ben al di là degli stretti confini del Principato, Hans-Adam II propone di guardare in avanti tornando alle origini della democrazia trasformando lo Stato, ora dominato dalle oligarchie politiche, in uno strumento al servizio dei cittadini per fornire loro in libertà ed efficienza i servizi che gli vengono richiesti. Partendo da una grande fiducia verso le responsabilità di ciascuno, dal riconoscimento della grande dignità della dimensione sociale, dal maggior livello possibile di decentramento e di partecipazione diretta.
Non si tratta solo di indicazioni teoriche. L’ultima Costituzione del Liechtenstein, voluta e promossa dal principe, prevede perfino che la maggioranza dei cittadini possa ottenere di trasformare il principato in repubblica e che i singoli comuni possano chiedere di uscire dal Principato e aggregarsi al Paese vicino, quindi la Svizzera o l’Austria.
Al centro comunque ci sono i cittadini, le persone, le comunità locali. Superando una politica che ha la sua maggiore capacità nel difendere se stessa, una politica delle élites, dei tecnici dalle menti illuminate.
E allora bisogna iniziare ad avere il coraggio di tornare allo Stato semplice, allo Stato che difende i cittadini da cui ricava la legittimità, garantendo regole condivise e fatte rispettare. Regole che garantiscano le maggiori libertà e quindi che permettano di sviluppare tutte le potenzialità. Dicendo basta a uno Stato invadente e pasticcione dove si moltiplicano i centri di spesa e dove la burocrazia ha costi crescenti e un’efficienza declinante. Concretamente per l’Italia di oggi questo vuol dire, per esempio, grandi riforme strutturali: azzerare le province, chiudere le prefetture, dimezzare i costi della politica, privatizzare la Rai favorendo le televisioni locali (di cui invece si stanno rendendo sempre più difficili le condizioni di vita), attuare un’illuminata riforma delle pensioni, abolire il valore legale del titolo di studio, riconoscere e tutelare tutte quelle iniziative che nascono dal basso nell’istruzione, nella sanità, nell’assistenza. Secondo una logica di sussidiarietà, in cui allo Stato resta una grande e fondamentale (ma poco costosa) funzione di garanzia.