Sul sistema della finanza le nuvole continuano a essere basse e ad annunciare tempesta. La crisi del 2009 ha insegnato molte cose, ma gran parte di questi insegnamenti sono difficili, quasi impossibili, da applicare. Ha insegnato, per esempio, che i debiti possono essere utili “entro certi limiti”, ma anche che è molto facile superare questi limiti quando si guarda al breve termine, ai guadagni immediati non solo in termini finanziari, ma anche e soprattutto, in termini di consenso politico e sociale.
La crisi tutta americana del debito privato, con i famosi o famigerati mutui subprime, si è rapidamente trasferita anche ai debiti pubblici, ancora una volta soprattutto americani, ma rapidamente diffusi anche nella fragile e vecchia Europa. Ed è stata una crisi che ha dimostrato l’essenzialità di un “governo” dell’economia e della società, la necessità vitale di istanze regolatrici in grado di limitare gli eccessi degli operatori di mercato. Ma al fondo appare un enorme problema educativo. Un problema che riguarda i cittadini, i risparmiatori, gli uomini di governo e che ha alla sua radice non tanto e non solo la conoscenza, quando la capacità di avere solidi criteri di giudizio e una coraggiosa scala di valori.
La conoscenza è sempre più diffusa, disponibile, anche a buon mercato. Le tecnologie dell’informazione ci portano la possibilità di essere partecipi, di condividere esperienze ed emozioni, di non disperdere la memoria e le espressioni della cultura. Ma più si allarga l’orizzonte, più diventa decisivo il muoversi non solo con competenze e professionalità, ma anche con responsabilità e insieme capacità di visione oltre i limiti dei singoli interessi.
Francesco Vella nel suo Capitalismo e finanza (Ed. Il Mulino, pagg. 140, euro 14) ripercorre con profondo interesse multidisciplinare le vicende della grande crisi e colloca proprio il tema dell’educazione come la linea di fondo da seguire per non rendere inutile l’esperienza della crisi. È significativo, per esempio, il riproporre un’osservazione di George Akerlof e Robert Shiller nel loro libro “Spiriti animali”.
Dopo la grande depressione degli anni ‘30, vi fu un’enorme diffusione, anche tra le famiglie, del bridge come gioco di società, gioco in cui è essenziale la cooperazione tra i partner. Negli ultimi decenni il bridge è quasi scomparso, sostituito dal poker dove si gioca solo per se stessi, si gioca per denaro, e il “bluff” è un modo per guadagnare un sacco di soldi.
L’esempio è estremamente significativo. La crisi del 2009 è la crisi della società del poker, una società altamente competitiva, in cui si può vincere forzando le regole, in cui il rischio è la dimensione costante, in cui hanno un ruolo decisivo la dissimulazione e il sangue freddo. Finché resta un gioco, anche il poker ha indubbiamente il suo fascino, ma è molto facile, quasi inevitabile, il passaggio alla competizione, alla ricerca del guadagno, all’indebitarsi nella speranza prima o poi di tornare a vincere. E comunque non bisogna dimenticare che se il poker resta una competizione a somma zero nella contabilità dei giocatori può provocare traumi molto più violenti per chi perde rispetto alla soddisfazione di chi vince.
Ecco allora l’importanza vitale dell’educazione, del rispetto dei limiti, della ricerca di un equilibrio costante e possibile tra competizione e cooperazione. Ecco la sfida di una regolazione dei mercati che non soffochi la libera iniziativa. Ecco la necessità di ritornare ai fondamentali: al fatto che l’economia è al servizio della persona e non viceversa.