In Italia è improvvisamente esploso il caso Ventotene perché qualcuno, che alcuni ritengono dalla parte sbagliata, ha citato il “famoso” Manifesto, di cui probabilmente il 50 per cento del parlamento ignorava l’esistenza, un restante 25 per cento sapeva a malapena che esistesse, un 15 per cento si è affrettato a cercarne il testo su internet, mentre i rimanenti, dopo aver pianto perché in Italia non c’è più religione, hanno deciso di rispolverare l’uniforme da combattimento deposta da tempo in un baule.
Persino l’aristocratico e solitamente pacato Fausto Bertinotti si è lasciato andare a una minaccia, verbale, di usare la violenza su chi aveva suscitato lo scandalo, per poi accorgersi solo in un secondo tempo che fare del male a una donna non è proprio in linea con lo spirito democratico.
Ebbene, io quel Manifesto l’avevo letto e ogni volta che passavo da via Puecher, dove Altiero Spinelli ha fondato il Partito federalista europeo, mi ricordavo della sua vicenda umana e politica. Per chi viene da una famiglia antifascista, sia pure sulla sponda liberale, non su quella socialista, Spinelli era un uomo da rispettare, come il sindaco Antonio Greppi, socialista, che comunque pare abbia fatto tante cose buone per Milano.
Certo Ventotene non era un gulag di Stalin, dove sarebbe stato inimmaginabile comporre insieme un tale documento, ma non era neanche uno di quei bei centri culturali della sinistra di oggi dove si possono organizzare dibattiti, anche con tanti invitati dall’estero. In più il povero Spinelli era stato uno dei primi ad accorgersi di che cos’era il regime di Stalin e, a differenza della maggior parte dei comunisti di allora, non aveva fatto finta di ignorare quello che accadeva in Russia in forza di quello che sarebbe potuto accadere in Italia.
Certo era un utopista, forse un sognatore, comunque uno che ragionava con la mentalità del tempo. Come tanti altri, anche di diverso orientamento politico.
La sua vicenda in questi giorni mi ha ricordato la storia di un grande statista inglese, Thomas More, ossia san Tommaso Moro, morto martire dopo una penosa detenzione nella torre di Londra per affermare l’indipendenza della Chiesa dal potere politico del sovrano. Come qualcuno sa, Thomas More scrisse un libro, intitolato, appunto, L’utopia, dove in uno stile affascinante, tipico del Rinascimento, descrive come dovrebbe essere uno Stato ideale, costruito secondo uno spirito cristiano.
Non sto a citare alcuni passi che oggi sarebbero inaccettabili anche per il Dicastero della Dottrina per la fede, ma non posso non ricordare come arrivò a immaginare una sorta di “comunismo” non imposto dallo Stato, ma generato da una vita sociale che dello Stato non aveva neanche tanto bisogno.
Non a caso, questo l’ho già scritto ma ancora pochi lo sanno, nella stele che per desiderio di Lenin fu posta fuori dal Cremlino, nei giardini di Alessandro, san Tommaso Moro occupava il posto più alto, sopra tutti gli altri utopisti pre-rivoluzionari.
Da poco Putin ha fatto abbattere quella stele, sostituendola con un’altra, che presenta la genealogia dei Romanoff.
L’utopia, quando non vuole imporsi come progetto assoluto, non genera violenza, perché innanzitutto accetta di essere corretta. Come si deve fare, con buona pace di tutti, anche con il Manifesto di Ventotene.
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