È stata varata la legge sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione aziendale: uno sguardo al futuro mentre la Cgil guarda al passato coi referendum
La cosa interessante per chi si occupa di benessere dei lavoratori, di diritti aziendali, di possibilità concrete di acquisire nuovi spazi decisionali e contrattuali in favore di tutti gli (ex) Cipputi è che i suoi compagni di strada sono caratterizzati da un assoluto pantagruelico disinteresse verso il futuro. Non solo del doman non han certezza, ma è che proprio di lui a loro non frega nulla. Convinti come sono che i diritti dei lavoratori si conquistano, sembra, combattendo contro i fantasmi del passato.
Gli è forse che noi siamo un po’ speciali: siamo a favore del cambiamento, siamo riformisti per natura e cultura, crediamo che il lavoro sia un bene e non una condanna, speriamo che chiunque possa trovare l’occupazione che lo avvicini alla felicità. E siamo sindacalisti e non degli emuli nemmeno troppo inconsapevoli di don Chisciotte. Tenete a mente queste parole. Ci torneremo.
Difficile credere, infatti, che si possa essere per il cambiamento depennando il passato: quello resta. Può essere giusto o sbagliato, ma non è impedendo oggi i saluti a braccio teso (o censurando i libri di storia) che si aboliranno vent’anni di (drammatica e pessima) storia. A meno di voler fare un’altra parte in commedia. Tenete a mente anche questa (se ce la fate, sennò segnatevela).
Non vogliamo parlavi di aria fritta: per quella bastano certe trasmissioni televisive o Twitter (o come si chiama adesso). Noi intendiamo solo informarvi che il Senato ha dato il via libera alla legge sulla partecipazione dei lavoratori. Dagli utili ai Cda cambiano le cose e cambia l’atmosfera in azienda.
La proposta di iniziativa popolare era stata promossa dalla Cisl e riguardava la partecipazione gestionale, economica e finanziaria, organizzativa e consultiva dei lavoratori nelle imprese. Adesso è legge ed è una legge che attua, insomma rende concreto, l’articolo 46 della Costituzione (ricordate? Quella che chiamano la Costituzione più bella del mondo, anche se per noi le prime righe di quella elvetica…, insomma anche lì ci sono le sue bellezze e neanche troppo velate).
Si sancisce infine il diritto dei lavoratori a un coinvolgimento attivo nella vita e negli utili delle imprese: capita la finezza? I lavoratori possono, hanno diritto e hanno il mezzo, per intervenire nella gestione, economica e finanziaria, organizzativa e consultiva nelle imprese. Insomma: la dolorosa divisione propugnata dal vecchio (e in fondo simpatico) Carletto (Marx) tra proprietari dei mezzi di produzione e le masse di proletari che hanno il solo bene della loro forza lavoro da prestare al capitale (anche se sapevano far figli!), ben: quella roba lì è in soffitta. Si è rotta la parete tra quelli che molti si ostina(va)no a proclamare due mondi separati.
A noi non ci si toglie dalla testa che in fondo è proprio in questo dettaglio che si nasconde l’origine di qualche mal di pancia nel mondo sindacale: se i lavoratori partecipano alla vita aziendale che fine fa la lotta? Dov’è l’antagonismo? La contrapposizione pura e dura se non ha un muro su cui appoggiarsi, se non ha un nemico, è destinata a fallire. E soprattutto che fine farà la lotta politica travestita da sindacale?
Perché la politica ha le sue sottigliezze e oggi lo fa contrapponendo una legge popolare (sillabare: po-po-la-re!) ai referendum, cioè a quattro domande sul lavoro più una sulla cittadinanza (che fa però un po’ la figura del cugino sporco e insolente alla festa di compleanno chic e snob) che vorrebbero abolire leggi volute dal Pd qualche anno fa (come il Jobs Act). Ora, lasciamo stare cosa ne pensate del Jobs Act, di Renzi, dei fiorentini (e della Fiorentina), del Pd riformista e di quello da assemblea permanente d’Istituto. Ognuno fa i conti con quel che vuole. E le sue idee ognuno se le tiene.
Però c’è un però che a noi, passateci la neolingua da “ministro che sta col popolo”, rimane sul gozzo, una scaglia che non ci fa star tranquilli. Perché non riusciamo a rispondere a una semplice domanda: come si fa a combattere con i fantasmi del neolitico e a proclamarsi progressista? Si va bene progredire, ma verso cosa e in che direzione se poi il mio problema è abolire l’ieri invece di faticà per costruire il domani?
Nelle scorse ore dotte riflessioni sono state perpetrate da esperti per spiegare che la nuova legge sulla partecipazione mica va bene, mica è a favore dei lavoratori. Addirittura, abolisce la contrattazione aziendale, affossa i salari, e “svuoterà il rapporto tra salario aziendale e prestazione di lavoro”. Meglio tacere sulla fonte di tale affermazione: i pareri sono pareri e come (ap)paiono speriamo (scom)paiano. Ma che la legge sulla partecipazione sia combattuta in nome del fatto che non propugni una vera partecipazione e che “ai lavoratori non verrà più riconosciuta pari dignità rispetto alla parte aziendale” sarebbe credibile se lo dicesse qualcuno che ha la partecipazione nel suo programma. Mica chi l’ha sempre combattuta.
Sarebbe più sensato, epperò di questi tempi il buon senso non si è solo manzonianamente nascosto ma l’è quasi mort!, ascoltarlo dalla voce chi non ne vuole sapere di partecipazione e preferisce la lotta di classe.
Se infatti a dirlo è chi ha sempre ritenuto la partecipazione un male, non ci viene il sospetto che il suddetto, o i suddetti, si siano trasferiti in massa nei pressi delle autostrade che portano a Damasco e lì siano caduti da cavallo, ma che il senso della frase vada decrittato diversamente: le parole sono il frutto acerbo non di un desiderio di propugnare una migliore partecipazione quanto di criticare a prescindere per lasciare tutto com’è in attesa di poter reintrodurre la conquista dei mezzi di produzione in un tripudio di kolkoz e sovkoz che neanche Putin osa più sognare.
Gli è però che siamo in un’epoca in cui tra sindacalisti (ci siamo tornati: ricordate?) e politici si fa fatica a capire la differenza. Perché i casi sono due: se una certa cosa ti va bene la apprezzi e al limite lavorerai per migliorarla e se non ti va bene, cerchi, almeno in democrazia, di cambiarla. E questo lo puoi fare in due modi: andando in politica e lavorando per avere la maggioranza dei consensi oppure abolendo l’oggetto del tuo disprezzo via referendum. Strada meno faticosa ma egualmente giusta e corretta.
Se però scegli questa strada e poi sbagli bersaglio e platea, se poi la gente non ti ascolta e non ti segue, se preferisce i sentieri montani (un consiglio per un amico: la Val dei Ratti a inizio giugno è splendida e piena di fiori e di ruscelli) alle urne, poi una domanda te la dovresti anche fare: vabbè che il mondo è sbagliato, sono tutti stupidi e servi, piegati dalle fake news e dalla propaganda del TG Uno. Ma non è che anche tu hai qualche problemino con la linea temporale e stai scambiando il passato con il futuro?
E poi: se vuoi abolire qualcosa non sarebbe anche gentile se volessi spiegare urbi et orbi che tornerà attivo un sistema che ha tutti i difetti del vecchio e non risolve un problema solo del nuovo mondo? Ma qui andiamo oltre, siamo nel fantasmatico.
Nella realtà concreta odierna c’è invece una bilancia sui cui piatto destro c’è una legge sulla partecipazione e su quello sinistro (laeva pars …) i referendum promossi dalla Cgil e coperti dal Pd. Quattro quesiti che sono contro cosa? Una certa legge, una certa politica, una certa persona, un certo Governo? Magari contro nulla (ma se lo vuoi abolire contro qualcosa devi esserlo anche in questo mondo sballato), ma la nostra impressione è che siano in fondo null’altro che contro il passato e abbiamo però la convinzione che non siano a favore di nulla che abbia un qualche sguardo sul futuro.
Noi siamo di animo buono: capiamo gli adoratori della dottrina della terra piatta, guardiamo con dolce angoscia gli adepti delle scie chimiche, ascoltiamo con orecchie accoglienti e decorosamente attente i sostenitori dell’esistenza in vita di Elvis Presley (nel mentre che ci chiediamo perché non possano esserlo anche John Denver o Jimy Hendrix che a noi ci piacevano decisamente di più). Ma facciamo fatica a seguire il malinconico hidalgo della Mancia (eccoci arrivati) mentre si lancia spada sguainata contro gli otri di vino gridando che si tratta di giganti: per sopravvivere stiamo con quelli che la realtà la osservano e lavorano per cambiarla.
Non con quelli che la sognano e poi scambiano i libri per le fabbriche. Stiamo con quelli che ottengono oggi per i lavoratori incentivi fiscali, distribuzione di utili o azioni. Stiamo con quelli che ottengono per i lavoratori la possibilità di partecipare, anche finanziariamente, alla vita delle loro imprese, di avere statuti societari, di sedere nei consigli di gestione. Abbiamo fiducia nella testa della gente quando le si forniscono occasioni e possibilità.
Poi che a farlo sia magari chi non ci piace mica tanto, questa è un’altra cosa. Ma noi siamo ostinatamente convinti che tra politica e sindacato debba esistere un fossato. E viviamo bene solo così.
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